Cercare di capire, evitare di pregiudicare
Le recenti vicende legate al caso di Giovanni Palatucci, al di là dello specifico suo proprio, rinviano ad una più generale questione, quella del modo in cui un passato così pesante, ossia la dittatura fascista, le persecuzioni razziali, l’ingresso in una guerra di deliberata aggressione, le condotte durante il conflitto medesimo, prima come potenza offensiva poi come passivo teatro di combattimenti, debba essere giudicato a distanza oramai di molti anni dai fatti di allora. In gioco c’è una questione sulla quale continuiamo ad arrovellarci, non essendo materia per i soli storici: qual era il grado di consenso dichiarato come, più in generale, quello che potremmo definire il livello di compromissione di una intera collettività rispetto ad una politica non solo di deliberata e conclamata prevaricazione ma anche di criminale e assassina violenza contro i civili? Non ne verremo mai fuori, credo, poiché la condivisione di un comune giudizio in materia è fatto eminentemente politico. Chi fa ricerca storica può fornire dati e chiavi di interpretazioni, riordinando, di volta in volta, il materiale a disposizione. Ma il modo in cui le valutazioni storiche sono fatte proprie dalla collettività è questione che rimanda al comune sentire di quest’ultima, mutevole nel corso del tempo. L’insieme delle variegate vicende che riguardano i «giusti», nella loro irripetibile singolarità, è quindi questione importante poiché indica, tra le altre cose, quanto, come e in quali condizioni individui comuni abbiano mantenuto, malgrado le forti pressioni collettive in senso opposto, un’autonomia di giudizio e comportamento. L’atteggiamento verso gli ebrei, i perseguitati per definizione in quegli anni (non certo gli unici, tuttavia), assume così la natura di condotta indice per capire se esistessero degli spazi, consegnati non solo alla coscienza dei singoli, alternativi a quello che era il pregiudizio dominante. Non di meno, l’atteggiamento di chi scelse di contro ai comportamenti prevalenti (segnati dalla compiaciuta compromissione o dalla calcolata indifferenza), chiama in causa altro ancora, a partire dal rapporto tra individualità consapevoli ed eventi storici. In altre parole, quanto possono la moralità e la determinazione di un singolo individuo, in una posizione di relativo privilegio rispetto a molti suoi contemporanei, privilegio da intendersi come capacità di incidere sul corso degli eventi a fronte della inettitudine o impotenza altrui, mutare l’indirizzo dei fatti stessi? Il rapporto tra volontà individuale e processi storici è sempre stato uno dei campi di riflessione del fare storia e dell’interrogarsi collettivamente su di essa. Cercare di capire quanto l’una influenzi gli altri, e viceversa, indica quale sia il margine d’azione dell’individuo dinanzi ai grandi fenomeni con i quali può trovarsi, nel corso della sua vita, a doversi confrontare. Il caso di Palatucci è quindi importante poiché la sua figura si trova allo snodo di una serie di vicende e storie che erano, per l’epoca in cui si consumarono, di fatto ben meno di un biennio, capitali. È il contesto, quindi, che va ancora indagato, insieme all’operato specifico della persona. Già si è avuto modo di soffermarsi su questo passaggio ma il concetto necessita d’essere ribadito, nonché rinforzato, perché ulteriori lumi, sulla sua e le altrui traiettorie esistenziali, si avranno solo calandosi fino in fondo in quell’ambiente: la città di Fiume, la sua collocazione geografica, i rivolgimenti politici, lo scenario militare balcanico e adriatico, la “etnicizzazione” del conflitto politico (di cui il fascismo era stato l’alfiere) e così via. Varrà quindi la pena rammentare, sia pure solo di sfuggita, che quanto avveniva nella penisola istriana e sulla costa dalmata, sottratte alla giurisdizione italiana, in quei mesi così tragici, rinviava alle infinite tragedie che nell’interno dell’area balcanica, di poco fuori dall’area costiera, costellavano e accompagnavano l’occupazione tedesca. Le vicissitudini ebraiche, in una regione che si era trasformata in un mattatoio, costituivano per la loro assoluta radicalità ancora una volta la cartina di tornasole di una più generale condizione, quella dello sradicamento e della distruzione del tessuto civile locale. Non di meno, la presenza italiana, non certo casuale né occasionale, era stata vissuta dalle popolazioni di altra nazionalità e, più in generale, dalle comunità slave, nel momento della fascistizzazione dei nostri presidi nazionali operata dal regime, come un elemento di vessazione. L’equazione tra italianità e fascisticità era destinata a riflettersi contro i nostri connazionali nel momento in cui il fascismo fosse venuto meno. E così puntualmente fu, in una regione di sutura tra culture diverse, dove aveva duramente operato il cosiddetto «fascismo di frontiera». L’8 settembre 1943, infatti, ruppe i precari equilibri che sussistevano in quella regione ed avviò un processo di sovversione e disintegrazione degli ordinamenti costituiti (e con essi delle prassi abituali), ai quali si sostituirono poteri emergenti o d’eccezione. Se i primi erano quelli partigiani il secondo era quello di occupazione tedesco. Giovanni Palatucci si trovò ad operare, in quanto giovane funzionario della polizia, in quel turbinio di cambiamenti. La sua stessa funzione vicaria di reggente, a copertura non solo della deficienza di presenza dei suoi superiori ma della decadenza del ruolo della sovranità italiana, è un indice significativo della precarietà nella quale doveva interagire. Altro discorso, va da sé, è il valutare come lo fece. Quanto andiamo dicendo è quindi un elemento di partenza, non di un punto di arrivo. Ma da qualcosa bisogna pur iniziare. Non di meno, fatto che pare significativo sottolineare in queste righe di veloce riflessione, è che le figure più interessanti di giusti siano costituite da individui irregolari, ovvero proclivi a non rispettare i canoni che il ruolo sociale occupato altrimenti gli prescriveva. Così per un Perlasca, sempre per rimanere in ambito italiano. Cosa implica ciò, al di là del riconoscimento civile e morale di una condotta che permise di salvare non poche vite? È che per fare del bene bisogna essere nella condizione oggettiva di poterlo esercitare. Occorre averne gli strumenti e le risorse, tanto per intenderci. Dopo di che, ed è l’ultimo passaggio, più che soffermarci sulle singole persone varrebbe forse la pena tornare, a rischio anche di risultare polemici, sull’atteggiamento di auto-indulgenza che ha accompagnato la memoria della guerra, dalla sua conclusione ad oggi. Il mito del «bravo italiano» (a fronte, invece, del «cattivo tedesco») è duro da smentirsi e ha condizionato l’intero Paese, dal 1945 in poi, nello sforzo di costruirsi degli alibi. La storiografia ha da molto tempo messo in discussione questa rappresentazione di comodo. Basti pensare che i punti nodali vengono identificati nelle sciagurate campagne coloniali così come, non a caso, nell’atteggiamento del fascismo verso le minoranze allogene e, quindi, nei confronti delle aree di confine, proprio a partire dal nord-est. La questione dell’antislavismo è un passaggio importante in questa architettura della violenza. Cosa c’entra Palatucci con questo quadro ben più grande di lui? Forse molto poco. Ma si trovò da solo, giovane funzionario di uno Stato che era venuto a mancare, a dovere fronteggiare un radicale mutamento di quadro (non solo le alleanze politiche e militari), avendo un qualche spazio di discrezionalità nell’area urbana di sua competenza così come nelle zone contigue. Il martirologio e l’apologetica poco si confanno a chi voglia capire, prima di procedere nel giudizio. Poiché il rischio è altrimenti quello di “usare” i giusti per emendare quelli che tali non furono, purtroppo molti, di colpe la cui responsabilità mai hanno voluto affrontare. I giusti non ci offrono sconti, in altre parole. Dopo di che la ricerca su chi Palatucci sia veramente stato può proseguire, evitando gli eccessi di animosità o di faziosità che non giovano comunque a nessuno, neanche alla di lui memoria.
Claudio Vercelli
(28 luglio 2013)