Bandiera bianca su sfondo nero
Questa domenica, nel mentre la situazione siriana si fa ancora più ingarbugliata di quanto già non lo fosse da sé e il gigante dai piedi d’argilla che porta il nome di Egitto continua a rimanere precariamente in piedi, in attesa di nuovi sviluppi, speriamo non drammatici, ricorre il settantesimo anniversario della disfatta italiana in età fascista e monarchica. Non si può altrimenti definire un evento periodizzante che avrebbe costituito, con sguardo retrospettivo, al contempo il punto di arrivo di specifici processi (l’estinzione del fascismo, non prima, tuttavia, della brutale parentesi della Repubblica sociale italiana, così come il tramonto dello Stato liberale in quanto modello di organizzazione collettiva dell’apparato pubblico del nostro Paese) e quello di avvio di altri, dai quali sarebbe derivato un assetto completamente diverso dei poteri e dei rapporti sociale. L’8 settembre del 1943, all’atto dell’ufficializzazione dell’armistizio con gli Alleati, quel che restava dell’Italia in guerra, infatti, crollò su di sé. Più che di una eclatante esplosione si trattò di una repentina implosione. Con essa si sfasciò anche il sistema amministrativo ed istituzionale del Paese. Se il 25 luglio il regime mussoliniano era stato liquidato attraverso il suo commissariamento, la continuazione del conflitto, così come l’alleanza con Berlino, non erano state fino ad allora messe in discussione. Quarantacinque giorni dopo, invece, la commedia delle parti si concluse, trasformandosi immediatamente in tragedia. La catastrofe dell’8 settembre coinvolse quindi tutta la società italiana. Suggellandosi, tuttavia, nello sfacelo del regio esercito, nel medesimo tempo drastico evento in sé ma anche simbolica rappresentazione di una disfatta corale, che andava oltre le medesime e inemendabili colpe del fascismo, per chiamare in causa le responsabilità delle classi dirigenti italiane, che non erano identificabili solo con la dittatura. La Casa regnante, il grande capitale industriale e quello agrario, la Chiesa cattolica, soprattutto le élite legate a doppio filo ai Savoia, non avevano dismesso il potere che era nelle loro mani, liberandosi quindi di Mussolini nel momento in cui ritennero che l’avventura fascista non fosse più sostenibile, né fungibile, per continuare invece ad alimentare i potenti interessi di cui rimanevano titolari. La sconfitta bellica era nell’aria; l’alleanza con la Germania di Hitler, paese nei confronti del quale l’Italia aveva svolto una guerra di pura sudditanza (smentendo il teorema del conflitto «parallelo», da subito tradottosi invece in una guerra subalterna), si stava rivelando una pessima scelta; la prospettiva di un mondo bipolare, diviso tra Est ed Ovest, si andava affermando non solo come fattore di possibilità ma anche e soprattutto come orizzonte di probabilità. La rotta totale del nostro esercito fu poi enfatizzata, nei suoi drammatici effetti, dalla grandissima dispersione territoriale delle forze armate, dalla sostanziale inefficienza dei reparti come dalla scarsità cronica di armamenti adeguati, di mezzi di trasporto e di comunicazione. Pesò enormemente il fatto che il nostro paese fosse divenuto terra di combattimento, con le truppe anglo-americane sbarcate già due mesi prima in Sicilia ed ora attestate nelle regioni meridionali della penisola. Potenti e feroci combattimenti, insieme ai bombardamenti delle città, sempre più intensi, stavano chiamando in causa la stessa popolazione del nostro Paese. I tedeschi, peraltro, già nei giorni successi al «tradimento» dei «badogliani» avrebbero dato da subito corso alla loro inflessibile politica di occupazione delle nostre terre, avviando le deportazioni razziali, proseguendo e intensificando la repressione di qualsiasi forma di dissenso, colpendo i civili indifesi attraverso una vera e propria politica delle stragi che si sarebbe poi ripetuta, con inaudita ferocia, fino all’aprile del 1945, all’atto della capitolazione della Wehrmacht in Italia. Alla disillusione rispetto alle «sorti imperiali» che il fascismo aveva promesso solo pochi anni prima, allo scetticismo prima e al successivo dissenso, sia pure sotto pelle, per l’ingresso in una guerra non voluta da molti dei nostri connazionali ed ora subita come un cataclisma domestico, prevaleva in quelle settimane un senso di sconforto e di abbandono. Se questo era il quadro angosciante su tutto, però, dominava la mancanza totale di una strategia politica, e quindi militare, che indicasse il da farsi dinanzi al secco mutamento di scenario. La colpevole assenza dei gruppi dirigenti del Paese era palese e come tale percepita, al di là della retorica di circostanza. Buona parte d’essi, a partire dalla monarchia, erano troppo presi dalle mene per salvare le proprie prerogative per potersi occupare d’altro. Nella tarda estate del 1943 gli effettivi dell’esercito italiano ammontavano complessivamente a tre milioni e mezzo (contando anche i feriti, gli invalidi e i prigionieri), di cui 650.000 erano dislocati nei Balcani e circa 200.000 tra la Francia meridionale e la Corsica. Alle truppe italiane, come è oggi bene risaputo, fu detto che avrebbero dovuto reagire «a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza». Nei fatti ogni reparto rispose, in assenza di chiari ordini superiori, così come poteva. La maggior parte dei soldati italiani stanziati nella nostra penisola sbandò da subito, a fronte dell’immediata defezione degli alti comandi. Soprattutto fuori dall’Italia, i nostri soldati si trovarono a subire il peso più eclatante della vendicativa risposta tedesca. Ognuno dovette scegliere alla cieca, confidando, laddove possibile, sulla parola dei diretti superiori. Nel volgere di poco meno di una settimana 1.006.780 uomini furono fatti prigionieri dall’ex alleato. Si calcola che 196.000 militari, una volta imprigionati, riuscissero a sfuggire alla successiva deportazione. Della parte restante (430.000 prigionieri dai Balcani, 321.000 dall’Italia e 58.000 dalla Provenza francese) 13.300 persero la vita mentre circa 90.000, tra i quali i fascisti della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, rimasero a fianco dei tedeschi. Dopo l’8 settembre, con il dissolvimento delle istituzioni statali e dell’organizzazione militare italiane, una cospicua massa di uomini prigionieri era quindi in mano alla Germania. Di questi, 710.000 furono deportati nel Terzo Reich e nella Polonia occupata con lo status di «Italienische Militär-Internierte» (meglio conosciuti con l’acronimo IMI) e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Le disposizioni tedesche sul trattamento dei militari italiani, nel caso di un’uscita unilaterale del Paese dall’alleanza di guerra, datavano peraltro al 28 luglio 1943, prevedendone il disarmo sistematico e l’imprigionamento collettivo. Ne conseguì, per l’appunto, il disastro di cui sappiamo. Il dissolvimento dell’esercito si coniugò all’implosione degli apparati dello Stato. Se nel dopoguerra un velo ipocrita e per nulla pietoso è stato steso su queste vicende, delle quali si parlò a lungo in termini retorici, solo per coprire le molteplici responsabilità, la discussione prese poi – in questo come in altri ambiti – vigore e sostanza con il sopravvenire, alcuni decenni dopo, di una migliore e assai meno autoapologetica concezione del passato. Qualcuno, in anni a noi più prossimi, ha voluto vedere in quei tragici fatti lo stigma e la cifra della «morte della patria». A tale tesi, che di fatto lega all’età fascista il maturare di un comune sentirsi come parte di una più ampia nazione, sono state avanzate e contrapposte molteplici repliche. Non è questo il luogo per riprendere la trama della discussione, benché essa sia interessante e per nulla accademica o fine a sé. Rimane il fatto che dalla frattura collettiva generata dall’8 settembre derivò, per una parte non certo irrilevante di italiani, una diversa considerazione sia del proprio ruolo sociale che, in immediato riflesso, dell’idea di cittadinanza, fino ad allora vissuta invece nei termini dettati dall’autoritarismo dei ceti dirigenti. La disfatta, il crollo, la rotta non furono fenomeno univoco. Poiché è da quel momento che prese forma quel patrimonio di libertà e di diritti che conosciamo, tra gli altri, come Costituzione della Repubblica italiana. In mezzo, tuttavia, una miriade di lutti e una vera e propria ecatombe collettiva.
Claudio Vercelli
(8 settembre 2013)