In cornice – Shofar

liberanomeChe lo shofar non sia politically correct? La domanda sorge spontanea pensando alla produzione artistica ebraica moderna. Nei mosaici delle sinagoghe bizantine – da Bet Alpha vicino a Tiberiade fino a Maon Nirim nel Neghev – lo shofar è presente; viene riprodotto a fianco di altri oggetti tipici delle feste, come il lulav. Ma nell’Ottocento, i pittori di genere ebraico che ricostruiscono meticolosamente il mondo ashkenazita tradizionale, dipingono ai rabbini con le peot e gli shtreimel, qualche volta un lulav, ma dello shofar non troviamo quasi traccia. Eppure l’oggetto in sé o un suo suonatore sarebbe apparso molto più “esotico” di un qualsiasi studioso di Torah. Mi si potrebbe obiettare che questi pittori, non dei grandissimi, si trovavano più a loro agio nel ritratto; ma cosa dire di “Rosh Hashanà” di Isidor Kaufmann in cui la scena è complessa, ma lo shofar è sparito? Aggiungo poi che anche nella sterminata produzione di Chagall, lo shofar è rarissimo. Credo che lo shofar dia la sensazione di qualcosa di primitivo, qualcosa che abbia poco a che fare con l’immagine dell’ebraismo come radice della cultura europea che quegli artisti in qualche modo volevano presentare. Un conto è vestirsi in modo strano – come i chassidim agli occhi dei borghesi tedeschi del primo Novecento – un conto è mostrare gli aspetti più antichi e meno spiegabili dell’ebraismo. Ma proprio il fatto di toccare le corde del cuore e non della mente, fa dello shofar e del suo suono un elemento caratterizzante dell’ebraismo, che non è solo cultura e confronto intellettuale, ma che deve muovere passioni non spiegabili e quindi non facilmente vendibili.‎

Daniele Liberanome, critico d’arte

(9 settembre 2013)