Il confine e la “razza”
Già nei giorni trascorsi, in questa come in altre sedi, c’è chi ha ricordato la triste ricorrenza, una purtroppo delle tante nella nostra storia nazionale, del discorso fatto da Mussolini il 18 settembre 1938. Era l’annuncio, come si sarebbe poi meglio capito dai loro concreti effetti nelle settimane successive, dell’emanazione e della promulgazione della legislazione antiebraica in Italia. In quella circostanza il dittatore ebbe a dire che «l’ebraismo mondiale è stato, durante questi sedici anni, un nemico inconciliabile del fascismo». Il perché del ricorso a Trieste come luogo di manifestazione anticipatoria di questa tragica volontà è chiaro a chiunque conosca le emblematiche vicende di quel luogo di confine, e di altri ancora, dove il lungo intersecarsi di storie, di identità e di culture costituiva, per il fascismo, un terreno di sfida e, nel medesimo tempo, un trampolino di lancio verso una politica adriatica, balcanica e centro-europea che avrebbe dovuto dare definitivamente forma ad una sorta di «nuovo ordine mediterraneo». Con Roma, ovviamente, al suo centro. Era un chiodo fisso del regime, già anticipato negli anni Venti ma che, con l’approssimarsi della guerra mondiale, sembrava ora a maggiore portata di mano. Parlare di assetti «razziali» a Trieste implicava quindi il lanciare un messaggio chiaro e incontrovertibile, non solo nei confronti degli ebrei, italiani e non, ma anche e soprattutto del mondo slavo (visto come terreno pressoché illimitato di espansione, influenza e forse anche di conquista) e di quello di lingua tedesca, allora esteso oltre i confini del «Grande Reich», data l’ampia disseminazione ad Est di comunità germanofone. Colpire l’ebraismo italiano assumeva un significato politico peculiare trattandosi, la comunità ebraica nostrana, non solo di un’entità culturale e socio-demografica inserita nella più ampia nazione italiana, ma anche di un segmento della società che, pure nella varietà delle sue posizione, aveva espresso non di meno in alcuni casi l’adesione o comunque l’accettazione dell’irredentismo filo-italiano e poi del nazionalismo vicino al fascismo. Mussolini, in tal modo, dimostrava che il regime sapeva come non guardare in faccia a nessuno, radicalizzandosi proprio sulla «questione razziale», anche a costo di amputarsi di una parte di reali o potenziali proseliti o sostenitori o, comunque, senz’altro fedeli cittadini. Che il discorso fosse rivolto anche con un occhio di riguardo (come di preoccupazione) verso Berlino è non meno vero, trattandosi di un legame competitivo quello che con la Germania era stato stabilito. Tuttavia, il vero fulcro dell’operato fascista risiedeva in ragioni interne, concernenti il riassetto al quale la società italiana veniva obbligata, dopo le sciagurate imprese coloniali del 1935-36 e in previsione di una guerra europea e mediterranea che, nelle intenzioni del despota, doveva aveva una dimensione limitata e, soprattutto, premiante per il nostro Paese, sia in termini di allargamenti territoriali che di consolidamento di egemonie ed influenze. Mai un calcolo di tale genere sarebbe presto risultato tanto erroneo ma questo è altro ordine di discorso. Vale piuttosto la pena, in questa sede, di rimarcare il nesso tra l’istituzione, il consolidamento e l’incentivazione di un razzismo pubblico, che di fatto rese lo Stato italiano (e non solo il fascismo) razzista in quanto tale, e quell’idea di identità nazionale che così il regime andava promuovendo. La «nazione» veniva infatti spogliandosi di quei tratti più strettamente culturali e linguistici per mettere in evidenza la presunta continuità di stirpe, fondata su falsi presupposti di ordine antropologico e genetico. Un salto di qualità, per così dire, ma all’indietro, rompendo definitivamente con l’idea di cittadinanza che dal Risorgimento era stata praticata e, come tale, incorporata nella comunità nazionale così come nelle istituzioni pubbliche. Del pari, il varo di norme razziste non costituiva – come alcuni ancora pensano o fingono di credere – uno stravagante errore ma lo sbocco, per più aspetti necessario se non obbligato, di un regime intimamente liberticida, antiliberale e per molte ragioni totalitario. Il razzismo era consustanziale al mussolinismo. Si trattava di un tema di fondo di cui il fascismo non poteva più fare a meno, e questo, è bene ripeterlo, non per il rapporto sempre più esclusivo con Hitler bensì per la necessità inderogabile di mantenere la mobilitazione della collettività italiana, orientandola verso nuove, idealizzate ma anche obbrobriose mete. Se la guerra contro le popolazioni africane, prima in Libia e poi nel territorio etiope, aveva incentivato una disposizione d’animo all’intolleranza razziale, la politica adriatica e quella balcanica di Mussolini richiedevano un rafforzamento radicale, dal quale sarebbe conseguito il discorso antislavo, altro anello potente dell’ideologia della sopraffazione. L’antisemitismo fascista, va da sé, non può essere ricondotto a queste due sole variabili, assolvendo semmai ad una pluralità di funzione. Ma si inserisce di buon grado anche dentro questa successione, non solo cronologica bensì soprattutto logica. La legislazione avversa agli ebrei varata nel 1938 si caratterizzò infatti per una radicalità unica nel suo genere. Come ha sottolineato Michele Sarfatti, nell’escludere gli ebrei dalla vita associata e dalle istituzioni, di fatto «proclamava cessata la vicenda storico-nazionale avviatasi con il Risorgimento. Fu allora, nell’autunno del 1938, che l’Italia cessò di essere la nazione che era stata». La citazione è opportuna, essendo trascorsa da poco un’altra infelice ricorrenza, quella dell’8 settembre 1943, giorno della dichiarazione dell’armistizio, dello sfaldamento dell’esercito, della decomposizione delle pubbliche istituzioni, dell’occupazione nazista e repubblichina; soprattutto, per certuni, giorno della «morte della patria». Se in tali termini si deve ragionare di quei fatti, è non è per nulla detto che sia questo il modo più appropriato per farlo, allora forse la patria era già morta cinque anni prima, e non solo per gli ebrei. La tragedia successiva, quella della disfatta collettiva, non solo bellica ma soprattutto civile e morale, ovvero la bancarotta totale di un paese, si era già consumata, nelle sue premesse, stabilendo che donne e uomini non dovessero più essere considerati italiani e, nel medesimo tempo, esseri umani con una propria dignità. Chi accetta l’altrui esclusione rischia di misurare, quando le sue sorti si capovolgono, la propria.
Claudio Vercelli
(22 settembre 2013)