La giusta distanza
Il trascorrere del tempo non ci fa necessariamente più o meno consapevoli (o ignoranti) su ciò che è stato prima di noi. Ci pone semmai in una diversa condizione prospettica nei suoi confronti. Da ciò possono derivare considerazioni alternative a quelle fino ad un certo punto sostenute, vuoi perché integriamo le nostre conoscenze con nuovi strumenti, mezzi e fonti vuoi, soprattutto, perché riconsideriamo sotto una luce e con uno sguardo innovativi quanto il passato ci consegna, spesso come un ingombrante bagaglio. Stiamo oramai uscendo dall’«era del testimone» (così la studiosa Annette Wieviorka), avviatasi negli anni Settanta del secolo scorso, dove l’attenzione prevalente è stata riservata al racconto dei protagonisti degli eventi, i superstiti, per incamminarci verso qualcosa d’altro, non ancora bene definito. Il trapasso generazionale ha un peso determinante nel definire non solo il chi ma anche il come (ossia il metodo) e il cosa (l’oggetto della riflessione) siano rilevanti rispetto alla comprensione della storia nel suo insieme. I superstiti sono stati identificati, nella quasi totalità dei casi, con le vittime delle violenze. Assai diverso è stato invece l’atteggiamento nei confronti dei carnefici, a volte dimenticati, altrimenti perseguiti, il più delle volte lasciati a sé, in un disinteresse che non è mai stato casuale. Se fino alla fine della prima metà del secolo trascorso i favori del pubblico, e della stessa storiografia, si orientavano verso gli eroi e i vincitori, con la svolta degli anni Sessanta una nuova coscienza storica, che si incontrava e recepiva gli umori prevalenti nelle società occidentali di allora, ha rivolto la sua attenzione verso quanti la storia non l’avevano fatta se non subendola. Non è un caso, pertanto, se il «continente Shoah» emerga proprio in quegli anni, con la sua crescente dirompenza, assumendo infine una rilevanza che ad oggi non è ancora venuta meno. Si tratta dell’epitome, ossia l’espressione assoluta, del male contemporaneo. L’attenzione passa quindi dagli archivi, intesi come le fonti per eccellenza, all’oralità e dalla dimensione più strettamente cartacea, come se solo essa potesse testimoniare e comprovare l’autenticità di certi fatti, al racconto in soggettiva, quello per l’appunto del testimone. Il nesso tra storia e memoria si fa più stringente, aprendo nuovi orizzonti di riflessione. Tuttavia, i rischi di un connubio di tale genere non sono pochi. Dall’apologetica irriflessiva e irritante del combattente «senza macchia e senza paura» si rischia di transitare verso altri lidi, dove piuttosto che collocare le vittime nella giusta prospettiva etico-morale si perviene ad un esito di condanna dell’azione politica in quanto tale. Poiché essa, secondo questo rischioso modo di pensare, sarebbe in opposizione all’umanitarismo, l’unico valore, secondo certuni, che invece meriterebbe d’essere difeso. Si tratta di un abbaglio: i regimi dispotici moderni, infatti, non si basano su un eccesso di azione politica bensì sulla sua distruzione. Già un grande studioso della Shoah come Raul Hilberg identificava in tre categorie i soggetti delle violenze di massa, aggiungendo alle vittime e ai carnefici anche quelli che chiamava «spettatori», i Bystander, un ampio insieme di persone, non necessariamente indifferenti rispetto ai fatti ma disposte nel senso di evitarne accuratamente gli effetti più dirompenti, a qualsiasi costo. Questa grande area, meglio conosciuta come «zona grigia» (un termine che indica molte cose, rimandando anche, ma non solo, alla compromissione morale come aspetto di fondo inevitabile in qualsiasi condotta basata sulla deliberata astensione) è, a conti fatti, decisiva nel determinare gli esiti di un conflitto. La rilevanza dipende non solo dal dato quantitativo, che misura in sé la sua prevalenza numerica nei confronti dell’area delle vittime come quella dei carnefici, bensì anche dal fatto che la costante compresenza di individui apparentemente scettici se non apatici, che vedono e che vivono le cose ma che rispetto ad esse non prendono parte attiva, costituisce la condizione essenziale affinché quelle stesse cose, quegli specifici fatti luttuosi, continuino ad accadere. Nessun massacro di grandi proporzioni è infatti possibile basandosi solo sulla feroce determinazione dei suoi esecutori. Dinanzi a fenomeni di vera e propria guerra contro le popolazioni civili, il coinvolgimento silenzioso, le deliberate omissioni di attenzione e di soccorso, la calcolata indifferenza sono tutti ingredienti indispensabili affinché essa possa produrre i suoi drastici effetti. Tralasciamo la facile invettiva, dal sapore altrimenti un po’ moralistico, contro la violenza trascorsa e, non di meno, il richiamo all’obbligo dell’impegno. Sospendiamo quindi temporaneamente quelle che possono essere istanze civili pur legittime (la denuncia della violenza peraltro non è mai bastata da sé per farla cessare), per concentrarci sull’ordito delle barbarie del Novecento. Le quali si sono connotate prima di tutto per un surplus di investimento ideologico, avendo alle proprie spalle sistemi di pensiero che si sono ben presto tradotti in viatici per l’amoralità diffusa. Contando poi su un inedito livello di mobilitazione collettiva, che chiama in causa una qualche forma di tacito consenso, per l’appunto, degli spettatori delle violenze. I quali non si sentono mai parte di quanto sta avvenendo, in ciò assolvendosi preventivamente da ogni responsabilità, ma che tuttavia sono di fatto attori nella scena che si sta consumando, per il fatto stesso di osservarla e di lasciarla scorrere senza intervenirvi. È allora in questo contesto che interviene la categoria dei defezionisti, ossia di coloro che si sottraggono da qualsiasi intervento, mettendo una parentesi tra se stessi e il mondo circostante, laddove invece la barbarie si fa non solo esperienza quotidiana ma norma regolatrice, ancorché perversa, delle stesse relazioni sociali, assumendo così una sorta non solo di prevedibilità ma anche di “accettabilità”.Per l’appunto dicevo di sospendere il giudizio preventivo, non per accettare o rifiutare aprioristicamente queste condotte, ma per cercare di comprendere per quale motivo esse abbiano avuto così tanta parte nelle tragedie del secolo appena trascorso. I conflitti dai quali si fugge con la mente senza che ciò implichi l’assunzione di un atteggiamento di aperto rifiuto, sono quelli che più lacerano le società. Si tratta di quelle guerre civili che paralizzano, in genere per lungo tempo, intere comunità, inchiodandole all’interno di un sistema non solo di gesti belluini ma anche di esasperate simbolizzazioni, dove si perde completamente il senso residuo dell’umanità. Ebbene, l’indagare su queste logiche, evitando tuttavia una lettura del passato recente esclusivamente schiacciata sul binomio ideologico totalitarismo/democrazia, che da sé non basta a fare capire tutte le dinamiche delle perversioni collettive che stanno dietro ai moderni sistemi di omicidio di massa, ci potrebbe aiutare a capirne meglio il perché. Nella zona grigia, nell’area dell’attesa, nella fascia della passività si celano molte cose. Dalla deliberata viltà all’incerto attesismo, che non riesce a tradursi in scelta per una molteplicità di ragioni, non riconducibili tutte al calcolo di utilità o alla mancanza di determinazione. L’indagine su di essa, quindi, ci permette una migliore comprensione del dispiegarsi della violenza come un rullo compressore all’interno del processo storico. Non di meno, ci aiuta a controbattere a quegli atteggiamenti qualunquistici e nichilisti, oggi molto diffusi, che invece proprio dell’esaltazione a posteriori della zona grigia hanno fatto una ragione da contrapporre a chi si impegnò, a proprio rischio, in una lotta il più delle volte mortale per fare vincere le ragioni della vita.
Claudio Vercelli
(29 settembre 2013)