Cent’anni di troppo
Le foto lo ritraggono sorridente, con o senza una divisa, nel secondo caso quella delle SS, con un sorriso non si sa quanto sincero. Poco importa, peraltro. Sembra comunque soddisfatto di sé. Se non vestisse l’uniforme delle SS si potrebbe dire di lui che è uno dei tanti giovani di “buone speranze” come ogni epoca ci consegna. Dopo di che le cose non stanno così. Il caso ha voluto che venisse a mancare pochi giorni prima del settantesimo anniversario del rastrellamento e della razzia ai danni della comunità ebraica di Roma, avvenuti l’uno e l’altra il 16 ottobre 1943. Da quel momento, anche se nel nord dell’Italia le stragi contro gli ebrei italiani erano già iniziate da sé, in maniera per così dire spontanea”, senza una precisa organizzazione, che sarebbe poi invece subentrata con le deportazioni sistematiche, anche il nostro Paese conobbe la tragedia della Shoah. La morte del centenario Erich Priebke, uno degli artefici attivi, partecipi e consapevoli di questo immane abominio, non ci coglie alla sprovvista. Non solo per un fatto anagrafico ma anche e soprattutto morale e culturale. Il ruolo dell’SS-Hauptsturmführer nella politica di persecuzione dell’ebraismo italiano e di repressione dell’opposizione politica e combattente, è fatto oramai sufficientemente noto per essere ancora una volta descritto per filo e per segno. Non ne fu comunque la sola architrave, essendo invece l’una e l’altra consegnate ai suoi superiori, tra i quali il generale Karl Wolff, intimo di Himmler, il suadente e seduttivo colonnello Eugen Dollman, l’ambiguo e poliedrico tenente colonnello Herbert Kappler, insieme ad altri ancora, più o meno rozzi e brutali o sofisticati e raffinati omicidi. Talenti criminali, sotto la copertura di uno Stato assassino, all’interno di una gerarchia solida. Priebke appartiene, per sua natura, in quanto subordinato, alla categoria dei solerti e convinti esecutori. Il fatto che nella monumentale e decisiva monografia che lo storico Lutz Klinkhammer dedica alla “Occupazione tedesca in Italia, 1943-1945”, editata in tedesco nel 1993 e in lingua italiana due anni dopo, il suo nome occupi una sola citazione, in nota, la dice lunga non tanto sul ruolo di questo triste personaggio quanto sull’articolazione complessa, stratificata e quindi plurale, degli apparati di oppressione tedeschi nella nostra penisola in quei terribili venti mesi di occupazione. Soprattutto, sulla loro determinazione nel raggiungere gli obiettivi che si erano dati: contenere l’avanzata alleata, sfruttare allo spasimo il potenziale produttivo italiano pro domo propria, dominare e comprimere la reazione della Resistenza, mantenere i propri nemici a distanza di sicurezza dai confini del Grande Reich, procedere nella distruzione dell’ebraismo peninsulare. Il capitano delle SS era una rotella in questo gigantesco e rodato ingranaggio. Per più aspetti un comprimario, non il regista. Questo, tuttavia, nulla toglie alle sue decisive responsabilità, nonché alla sua completa, totale, integrale compromissione personale con la politica omicida perseguita dal Terzo Reich. Ma ci invita – ed obbliga – a contestualizzarla. Poiché Priebke, che partecipò all’eccidio delle Ardeatine e poi, nei mesi successivi, alle azioni di persecuzione sanguinosa del partigianato, fu non solo un agente della repressione ma soprattutto un simbolo della violenza nazista nel suo quotidiano esplicarsi. Il prototipo non del mostro ma del funzionario della morte. Altro discorso ancora sono le sue personali vicende giudiziarie, in sé tortuose, quando, nel novembre del 1995, fu prima estradato in Italia e poi rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea. Imputato di “concorso in violenza con omicidio continuato in danno di cittadini italiani” proprio il vile massacro di 335 nostri connazionali il 24 marzo del 1944 alle Ardeatine, si vide, due anni dopo, immeritatamente condonare l’imputazione dal Tribunale militare per intervenuta prescrizione. Fu a partire da questa deliberazione, vivacemente e attivamente contestata dalla Comunità ebraica di Roma, in ciò sostenuta non solo dall’ebraismo italiano nel suo insieme, ma da tutti i democratici, che la modesta figura di Priebke acquisì una qualche notorietà pubblica di ritorno, catalizzando, non importa quanto a torto o a ragione, le colpe non solo sue ma di tutto l’apparato di repressione nazista e fascista: Kappler, Wolff, Kesserling e tutti gli altri, registi della morte collettiva, nel mentre erano già scomparsi o avevano falsamente emendato le loro responsabilità. Sta di fatto che la Corte di Cassazione dispose un nuovo processo che, nel 1998, si tradusse, per il tramite della deliberazione della Corte d’appello militare, nella condanna all’ergastolo, sentenza poi confermata nell’autunno del 1998 dalla Cassazione. Tale decisione non fu priva di contestazioni e distinguo, come quelli espressi allora da Indro Montanelli e poi da Vittorio Feltri. Ripetuti, in questi giorni, sia pure con una cautela che allora sembrò mancare, da Mario Cervi. Si metteva in evidenza, allora, che un giudizio così severo non potesse essere il risultato di una pressione popolare ma dovesse confrontarsi con elementi oggettivi, come la catena di comando, di cui il capitano delle SS era definito come un anello intermedio e subordinato. I motivi per cui i critici propendevano per una maggiore duttilità nei riguardi del subalterno erano i medesimi per cui i “colpevolisti” ritenevano che Priebke dovesse rispondere, una volta per sempre, delle sue personali colpe ma anche, in qualche modo, di quelle altrui. Poiché, se è vero che la responsabilità penale è sempre individuale, non di meno in un circuito criminale come quello nazista, strenuamente politico, sussiste un effetto di traslazione, non facilmente riconducibile al solo singolo. In quanto il livello del giudizio, nel processo di corresponsabilizzazione e di attiva partecipazione, supera la configurazione dei concreti delitti delle persone in quanto tali, per rinviare ad una vera e propria associazione a delinquere, dove l’agire altrui si riflette immediatamente sull’azione propria. Ma il problema, evidentemente, non era solo giuridico bensì politico, poiché intorno alle vicende di Priebke si sono raccolti e agglutinati segmenti significativi della destra estrema, nuova a vecchia, capitolina e non. Di fatto, l’anziano “militare politico”, fino al giorno della sua morte, ha raccolto le impudiche simpatie di neonazisti, fascisti e presunti “libertari”. In queste ore ne abbiamo manifestazione ripetuta. Si può stare certi che costoro, anche a esequie avvenute, celebreranno non solo la sua triste memoria ma anche il suo presunto lascito, quello a seguire alla sua scomparsa, laddove diranno che se muore l’uomo non muore l’“idea”. Poiché il capitano delle SS-SD (il secondo il servizio di sicurezza delle prime), è divenuto un simbolo non solo per le vittime ma anche e soprattutto per i sostenitori della carneficina, ovvero della sua liceità, nel nome di vecchie e nuove follie. Piace a molti la sua centenaria esistenza, come se si trattasse di una quercia, simbolo della forza e dell’integrità. Non morale bensì amorale, ovvero basata sulla capacità di mettere tra parentesi la propria coscienza, post-ponendola alle priorità di un regime, quello nazista, che si voleva millenario perché capace di fare a meno della integrità dei singoli. Piace a molti poiché assolve i suoi non pochi estimatori dall’ingombro di avere una coscienza, quella di doversi confrontare con un’etica della responsabilità che sembra essere di nuovo divenuta, soprattutto in questi ultimi tempi, una merce assai rara. Priebke è morto così come è vissuto, da impenitente nazionalsocialista. Ce ne faremo una ragione. Non ci troveranno impreparati, tuttavia, la prossima volta.
Claudio Vercelli
(13 ottobre 2013)