Sulla verità e sulla tangibilità delle cose
Si è conclusa una settimana difficile, a tratti molto faticosa. A fare da poli opposti è stato, da un lato la ricorrenza del crimine contro l’ebraismo romano, con il rastrellamento e la razzia ai danni della comunità capitolina del 16 ottobre 1943. Su queste pagine molti si sono dedicati alle commemorazioni del settantenario e per parte mia non ci tornerò sopra. Dall’altro lato, invece, la morte di Erich Priebke e le reazioni che essa ha innescato, a partire dalla sua contrastata sepoltura. Nel web ha avuto ampia circolazione e diffusione quello che dal suo avvocato difensore è stato definito come il “testamento umano e politico” (sic!), datato al luglio di quest’anno, di un nazista centenario, impenitente e intollerante. La sua lettura indica, meglio di qualsiasi altro testo, o testimonianza, di quale pasta sia fatta l’ideologia alla quale quell’essere vivente si è rifatto, dagli anni della sua prima gioventù, nel momento della formazione, fino all’ultimo respiro. L’intera gamma dei consolidati luoghi comuni dell’antisemitismo, non importa quanto beceri e quindi immediatamente smentibili, sono veicolati per il tramite delle sue stesse parole. Tornarci sopra, magari per controbattere riga per riga, parola per parola, accento per accento è come tentare di svuotare l’oceano con il classico cucchiaino. Siano solo chiare un paio di cose: assai raramente si è nazisti per ignoranza (superata la quale la luce della ragione dovrebbe indurre chi ha sbagliato a fare atto di resipiscenza); inoltre, il nazismo stesso si basa su tante cose ma anche e soprattutto su un atto di orgoglio, quello di volere rivendicare la propria colpevolezza, letta, in forma rovesciata, come un esercizio di consapevole libertà. “Il nostro onore si chiama fedeltà”, recita l’anodino motto delle Schutzstaffeln. Ciò, ed altro ancora, traspare dalle parole dell’ex-capitano delle SS. Punto e basta. Dopo di che, a cavallo di questi eventi, entrambi dotati di un alto contenuto simbolico, cronologicamente coincidenti ma logicamente contrapposti, si è inserita una polemica che, a mio avviso, è destinata a segnare assai di più il futuro di quanto non possano fare i fantasmi del passato. Già alcuni ne hanno parlato in questa sede ma ci voglio ritornare. Il 12 ottobre, nel suo blog titolato a “Il non senso della vita 2.0” Piergiorgio Odifreddi, matematico, nonché figura abituata a calcare la scena pubblica con prese di posizione irrituali, si è dedicato a Priebke con una sua nota, accostando e comparando la vicenda dei funerali di colui che definisce comunque come un “criminale di guerra”, a quelli negati dalla Chiesa cattolica a Piergiorgio Welby, quest’ultimo morto per sua scelta, a seguito di una lunga e devastante patologia. L’intento polemico era chiarissimo, avendo ad oggetto la gerarchia vaticana, come anche la religione e la stessa religiosità, che Odifreddi considera alla stregua di residui superstiziosi di un passato oscuro. Le reazioni dei lettori non si sono fatte attendere e, come capita pressoché sempre quando si parla di qualcosa che chiama in causa anche solo indirettamente gli ebrei, da quasi subito si sono spostate sul tema “Olocausto”. Naturalmente (e qui l’avverbio assume il tono del sarcastico riscontro di una prassi purtroppo diffusa), le “opinioni” negazioniste, o comunque ispirate ad una sorta di incredulo scetticismo (del tipo: fingo di chiedere riscontri non perché mi occorrano per corroborare la tangibilità di un evento storico bensì per denunciarne l’inattendibilità; un meccanismo retorico, quest’ultimo, che serve in realtà solo a consolidare il sospetto sistematico che, come alcuni lettori del matematico hanno scritto, sia tutta una bufala o, peggio ancora, una truffa, ai danni dei tanti creduloni), si sono ben presto manifestate. I post nel web sono come le ciliegie, poiché l’uno tira l’altro. Odifreddi, evidentemente non solo partecipe ma anche compiaciuto del “dibattito” così innescatosi, a onore del vero decisamente stucchevole nei suoi contenuti, con la ripetizione ossessiva, da parte di certuni, dei paradigmi complottisti, alternati a risposte di segno opposto, è quindi intervento il 14 ottobre, prendendo a ragione una comunicazione accesamente polemica di un suo interlocutore. Le parole scritte dal “matematico impenitente” nonché “razionalista” hanno lasciato stupiti molti. In breve: il processo di Norimberga è definito come “un’opera di propaganda”, aggiungendo poi che “i processati hanno dichiarato, con lapalissiana evidenza, che se la guerra fosse andata diversamente, a essere processati per crimini di guerra sarebbero stati gli alleati, e ovviamente avevano ragione”; rincarando la dose ha poi affermato che “a maggior parte delle persone, me compreso ovviamente, si formano [una opinione su] opere di fantasia pilotata, dai film di Hollywood ai reportages giornalistici” benché “la storia sia ben altra cosa, e abbia il suo bel da fare a cercare di sfatare i luoghi comuni che sono entrati nel ‘sapere’ collettivo”; infine, in un crescendo rossiniano, «non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra, e non avendo mai atto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso fare altro che “uniformarmi” all’opinione comune, ma almeno sono cosciente che di opinione si tratti, e che le cose possano stare molto diversamente da come mi è stato insegnato, affinché credessi ciò che mi è stato insegnato”. Le lunghe citazioni sono obbligate non solo per dare di conto della falsa diatriba (camere a gas sì o no?) che è al centro, nella sua impostura, dell’agire negazionista (che finge di cercare riscontri di quei fatti dicendo di non averli trovati perché non esisterebbero), ma soprattutto per individuare il meccanismo retorico che l’autore intende mettere in movimento per dire indirettamente, con una torsione espressiva, quello che altrimenti gli peserebbe troppo affermare ad alta voce: il passato, quel passato soprattutto, è (su un piano di probabilità, date certe premesse) un falso, quanto meno potenziale. Odifreddi legittima non tanto l’aspetto più odioso del negazionismo (l’affermazione perentoria dell’inesistenza di uno sterminio razzista) bensì quello più seducente e, in fondo, maggiormente sostenibile sul piano intellettuale, che rinvia alla domanda di “prove”. Il tutto, però, quando nel medesimo tempo questa viene direttamente coniugata alla convinzione che la narrazione del passato sia comunque una prerogativa dei vincitori e – quindi – l’inevitabile prodotto di una deliberata mistificazione. Si tratta, in altre parole, di un rifiuto mascherato come richiesta di chiarimenti. E si sposa con quell’atteggiamento emotivo, prima ancora che culturale e cognitivo, che fonda sul dubbio sistematico e preventivo ogni relazione con il mondo circostante. Per usare parole impegnative, la sfida è portata sul piano epistemologico, quello dello statuto del sapere come della verità tangibile. Ma non è un atto di apertura bensì di chiusura. Ai riscontri l’autore contrappone infatti l’idea, neanche troppo implicita, dell’esistenza di una sorta di “mega-macchina” orwelliana, il «ministero della propaganda» di cui parla con convinzione nel suo post, che condizionerebbe la percezione e l’elaborazione del passato. Va da sé, quindi, che se così fosse per davvero, ogni prova che dal passato ci deriva sarebbe comunque destituita di fondamento da subito, essendo infatti il prodotto dell’azione di questa gigantesca impostura. Ancora una volta, già era successo con Israele, un anno fa circa, Odifreddi raccoglie ed esprime quel senso comune che del metodo razionale, che non è solo un aspetto del fare scienza ma anche del comporre la trama storica, recupera il dubbio trasfondendolo però in sospetto sistematico. Che è, segnatamente, il modo in cui uno dei “maestri” del negazionismo, il francese Robert Faurisson, ha riletto prima la letteratura francese e poi i documenti e le testimonianze della Shoah. Ogni narrazione condivisa rischia così di essere vissuta (e subita) come la meschina prerogativa di una istituzione, quindi espressione dei suoi interessi particolari, fatti altrimenti passare, con un atto machiavellico, come interesse collettivo. Non a caso il matematico si scaglia con persistente esacerbazione contro la Chiesa cattolica, da lui raffigurata come la madre di tutte le nequizie, l’epitome del male poiché in sé, nel suo agire storico, nel suo ordinamento civile e secolare, nel suo dettato non solo teologico ma anche e soprattutto ideologico, si celerebbe una trama inconfessabile, quella della schiavitù degli antichi come dei moderni. Questo approccio, che bene si combina con la forma mentale del negazionismo (che rivendica a sé il diritto di portare Verità e Sapere, entrambi con la maiuscola, come tali scabrosi e quindi scomodi poiché interdetti ai più da chi ha interesse ad alimentare la congiura del silenzio o del falso), assume i panni non tanto di una precisa ideologia politica – sia pure raccogliendo, a sinistra come anche a destra, quel che resta di certe istanze pseudo-emancipatorie – bensì di un bislacco liberalismo che nel nome della centralità assoluta della libertà dell’uomo, peraltro completamente avulsa dal contesto in cui questa si manifesta, enfatizza la sua lotta, quasi erculea e prometeica, contro un mondo di mistificazioni, costruite ad arte dai «poteri», più o meno forti, occulti o palesi. Dal pluralismo culturale, di cui dice di essere convinto assertore, passa agevolmente, in tal modo, ad un relativismo valoriale, tanto più accentuato quanto mascherato come conoscenza basata sulla diffidenza. L’intellettuale, secondo questo schema, diventa così il difensore dei “deboli” nella misura in cui la sua azione è associata allo scetticismo accusatorio come prassi costante (e ossessiva). Non è un caso se le vere fortune di questo atteggiamento si riscontrino tuttavia proprio nel sistema delle comunicazioni di massa, dove – per l’appunto – quello che è un modo di essere ma anche di atteggiarsi, trova la compiaciuta adesione di molti spettatori-interlocutori. Poiché ne solletica gli spiriti ribellistici, una certa vocazione anarcoide, una fittizia ispirazione libertaria, intesa come sistematica licenza di giudizio e pregiudizio, che ha sostituito qualsiasi prospettiva di autentica emancipazione individuale e collettiva. Il web, che in questo caso riprende e amplifica le dinamiche della televisione, si nutre anche di queste pulsioni. L’atteggiamento blasé, ossia da disilluso, da disincantato che si accompagna a certe prese di posizione, non fa altro che rafforzarne l’impatto, alla furbesca ricerca di facili consensi. Qualcuno avrebbe detto: “épater le bourgeois”, ovvero, come recita la Treccani, “meravigliare a buon mercato la gente, con parole e affermazioni paradossali, con atteggiamenti anticonformistici o spregiudicati, per il gusto di stupire e scandalizzare”. Si sappia tuttavia che il negazionismo seguirà sempre di più questa china, sganciandosi, come già va facendo da diverso tempo, dalla sua origine politica, per divenire un abito mentale facilmente, indossabile da molti. La schiavitù mentale veste sempre i panni della falsa libertà. Il populismo culturale, oltre che politico, quello che fa le pulci al “potere” di cui ne è esso stesso parte, per meglio rafforzarsi nelle sue posizioni d’interesse, è la vera cornice di un declivio di tal fatta.
Claudio Vercelli
(20 ottobre 2013)