…testimonianze

Nel bel libro di Frida Bertolini “Contrabbandieri di verità” (Clueb 2010) si discute con dovizia di informazioni sulle incredibili storie di falsi testimoni che hanno scritto libri di successo anche internazionale narrando vicende personali legate al periodo della Shoah, storie che si sono poi rivelate del tutto o in parte frutto di fantasia. Si parla in particolare dei noti casi di Binjamin Wilkomirski, Misha Defonseca e Bernard Holstein. In un’epoca in cui il dibattito sul negazionismo si fa acceso vale sicuramente la pena di fermarsi e ragionare su questa dinamica malata, anche perché purtroppo pure in Italia circolano oggi personaggi che raccontano storie sulla Shoah non sempre suffragate da riscontri credibili e alcune volte addirittura scopertamente fantasiose. Naturalmente l’esistenza stessa di questi personaggi offre il fianco a uno dei più frequenti cavalli di battaglia dell’arcipelago negazionista: ‘se una testimonianza è falsa, per sillogismo tutte le testimonianze sono dubbie’. Deve essere chiaro a tutti che non è così. Le testimonianze raccolte a decine di migliaia negli ultimi anni sono una fonte storica orale di tutto rispetto e contribuiscono fortemente ai cosiddetti Holocaust Studies, fornendo riscontri particolari e spiegando dinamiche che la sola documentazione scritta non permette di leggere in maniera compiuta. La questione che emerge nel caso della falsa testimonianza ha invece il sapore di delicato e problematico caso di psicologia sociale. Cosa può spingere un essere umano a crearsi una narrazione fantasiosa del proprio passato personale, incentrata su un dramma così colossale come quello maturato nell’universo concentrazionario? Perché, ad esempio, raccontare di aver fatto parte dei Sonderkommando ad Auschwitz, riproducendo in maniera volgare la testimonianza di Shlomo Venezia e attribuendosela in un delirio fra memoria e incubo? Non il denaro (i testimoni non ricevono compensi particolari), forse la fama. Ma è sufficiente il riscontro di qualche titolo su un giornaletto locale per giustificare una tale enormità? Di fronte a un simile comportamento l’atteggiamento forse più opportuno dovrebbe essere quello di una pietosa comprensione legata se non altro all’età dei tristi protagonisti di queste sceneggiate, ma la questione non è così semplice a causa del colpevole atteggiamento di alcune istituzioni locali o scolastiche. Capita infatti che ci siano scuole o amministrazioni locali che pur di ospitare la testimonianza di un sopravvissuto organizzano eventi pubblici a cui invitano questi personaggi senza minimamente sottoporre la loro (falsa) testimonianza al vaglio della più comune e diffusa storiografia reperibile ormai molto facilmente. E magari (è già capitato) gli stessi studenti che partecipano all’evento ne escono entusiasti e rafforzati nella loro coscienza umanitaria e antifascista. Non scrivo nulla di nuovo né di sconvolgente se dico che la questione del difficile rapporto fra ‘vero’ e ‘verosimile’, e dell’eterno conflitto fra storia e memoria emerge in questo caso in maniera forte e non eludibile. Come ci si deve comportare in questi casi? Cosa devono fare le istituzioni (anche quelle ebraiche) di fronte a simili episodi? Secondo me – ed è la ragione per cui ne scrivo – è nostro dovere parlarne, rendendo palesi i pericoli insiti nel contrabbando della memoria. Le logiche del negazionismo sono troppo visibili e troppo aggressive per poterci permettere di fornire nuove armi (ancorché spuntate) a chi intende decostruire con un lucido disegno politico di chiara matrice nazista le storia della Shoah.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(1 novembre 2013)