Qui Roma – Le suore del coraggio

suore“La nostra famiglia ha avuto la fortuna di trovare molte persone che hanno aiutato, ma nessuno come la beata Elisabetta e madre Riccarda che ci hanno salvato la vita e restituito la dignità”. Convento di Santa Brigida, piazza Farnese. Nella Roma sotto occupazione nazista si consuma un’eroica azione di solidarietà. Protagoniste due religiose – madre Maria Elisabetta Hesselblad e madre Ricarda Beauchamp Hambrough – che all’interno del convento nascondono per molti mesi la famiglia Piperno, in fuga dalle persecuzioni antiebraiche dopo travagliate peripezie tra Siena, Monaciano e la Capitale.
Uno dei ‘piccoli’ di casa Piperno – Piero, oggi 84enne – ha ricordato con le parole sopra citate, apparse sul numero di settembre di Italia Ebraica, non solo il coraggio ma anche la profonda umanità e comprensione delle due religiose che, nei mesi trascorsi a Santa Brigida, non facero mancare il loro supporto affinché i Piperno potessero vivere la loro identità ebraica senza alcuna difficoltà e limitazione. “Quel giorno, per la prima volta dalla promulgazione delle Leggi razziste del ’38 – ha spiegato Piero – tornammo a sentirci degli esseri umani”.
Dopo l’iscrizione del nome di madre Hesselblad nel registro dei Giusti tra le Nazioni il cerchio si chiude oggi con una nuova e solenne cerimonia: la consegna di due medaglie del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles in memoria di entrambe le suore.
La cerimonia si svolgerà nel pomeriggio, a partire dalle 17.30, nella Casa di Santa Brigida. Ad accogliere le medaglie l’abbadessa generale, madre Tekla Famiglietti. In rappresentanza del Vaticano sarà presente, tra gli altri, il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani cardinal Kurt Koch.

La famiglia Piperno, piazza Farnese e le suore che aprirono le porte

“Ci hanno salvato, ma soprattutto ci hanno restituito la dignità permettendoci di vivere a pieno la nostra identità ebraica. Quel giorno, per la prima volta dalla promulgazione delle Leggi razziste del 1938, tornammo finalmente a sentirci degli esseri umani”. È commosso Piero Piperno, 84 anni, nel ricordare il ruolo che madre Maria Elisabetta Hesselblad e madre Ricarda Beauchamp Hambrough ebbero nel proteggere lui, adolescente, e tutta la sua famiglia nei mesi della persecuzione razziale. Luogo dell’eroica azione il convento di Santa Brigida, in piazza Farnese, dove i Piperno vissero in clandestinità fino all’arrivo delle truppe alleate a Roma.
Un contributo che torna d’attualità proprio in queste settimane con la stampa di alcuni certi#icati di coraggio realizzati dal Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles e con la loro consegna all’attuale dirigenza del convento in segno tangibile e di eterna riconoscenza da parte dei salvati. L’appuntamento segnerà l’ideale chiusura di un cerchio apertosi nel 2005 con l’iscrizione del nome di madre Hesselblad nel registro dei Giusti tra le Nazioni e proseguito, quest’estate a Los Angeles, con una grande serata di gala svoltasi alla presenza di oltre 1200 persone e con ospiti d’onore il figlio e uno dei nipoti di Piero, rispettivamente Lamberto e Ariel Piperno.
“Al di là delle appartenenze sociali e religiose, si coglie in questo onorevole riconoscimento la consapevolezza della centralità della persona, l’alto e ineludibile valore di ogni essere umano e della sua vita quale diritto e dovere da difendere, promuovere e sviluppare”. Così l’abbadessa di Santa Brigida Madre Tekla Famiglietti nel ricevere la medaglia dello Yad Vashem accolta, con particolare commozione, non solo dalle religiose dell’istituto ma anche da papa Benedetto XVI in persona.
Dignità, difesa della vita: un insegnamento che Piero Piperno si sforza di trasmettere quotidianamente alla propria famiglia. Non passa giorno infatti che il racconto di quei giorni non venga approfondito a tavola: nelle sue pieghe più drammatiche ma soprattutto, spiega Lamberto, “nell’elaborazione delle azioni meritorie e delle tante persone coraggiose che i Piperno ebbero la fortuna di incontrare in quel periodo”.
Destinari sopratutto i più “piccoli” di casa Piperno e in particolare Ariel e Gadi, i figli di Lamberto. Così, quando dal Centro Wiesenthal è arrivata la famosa convocazione, non c’è stato alcun dubbio: sull’aereo per Los Angeles insieme a Lamberto è salito Ariel, il più giovane dei due. “Ho voluto Ariel con me perché si rendesse conto della grandezza d’animo di queste due donne straordinarie e di come la loro memoria vada necessariamente trasmessa di generazione in generazione. La commozione e gli applausi di una platea immensa come quella che ci siamo trovati davanti al Wiesenthal sono la testimonianza più forte di quanto questa storia di coraggio abbia inciso in così tante persone. Un momento della vita di mio figlio che mi auguro possa custodire per sempre con orgoglio e consapevolezza di ciò che è stato”. A consegnare il riconoscimento padre Norbert Hofmann, segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo dello Stato del Vaticano.

Adam Smulevich (Italia Ebraica settembre 2013)

“Ci hanno restituito la dignità”

La famiglia Piperno è sempre stata molto unita: due fratelli, Giacomo e Adolfo, avevano sposato due sorelle, Nella e Vanda Sed, e una terza sorella, Vera, aveva sposato Silvio, Piperno anche lui, ma di un altro ramo. Tutti quanti con i loro figli e con l’anziana nonna Clotilde (madre di Giacomo e Adolfo) si troveranno nel convento di Santa Brigida nell’inverno del 1943. Anche l’attività economica era in comune: erano infatti commercianti di tessuti all’ingrosso. Adolfo morì molto giovane nel 1936 così Giacomo si prese sulle spalle anche la famiglia del fratello, come si usa nelle famiglie ebraiche. I membri della famiglia Piperno, prima della promulgazione delle leggi razziste del 1938, erano italiani e nazionalisti; fondamentalmente erano grati ai re d’Italia che nella progressiva uni#icazione della nazione avevano abolito i ghetti e riconosciuto agli ebrei italiani il pieno riconoscimento di tutti i diritti. Per questa ragione non c’è da stupirsi che il padre della nonna Clotilde era stato decorato per aver partecipato alla terza guerra di indipendenza del 1866 e successivamente Giacomo Piperno era andato ufficiale volontario nella prima guerra mondiale. L’adesione al fascismo fu quindi spontanea come in molte altre famiglie di religione ebraica. Le leggi razziste del 1938 sono stati un brusco risveglio, il regime ha svelato il suo vero volto, gli ebrei sono stati espulsi da tutte le scuole di ogni ordine e grado, esclusi da ogni pubblico incarico, espropriati dei loro beni e impedite loro molte attività. La famiglia Piperno potè comunque continuare l’attività commerciale grazie all’aiuto di una ditta cliente che offrì il suo nome come copertura.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, il 10 giugno 1940, si temevano i bombardamenti delle città italiane da parte degli Alleati. Fu così che la famiglia cominciò a pensare di acquistare una casa in campagna per trasferirvi anziani, donne e bambini e, in caso di necessità, anche gli uomini. Fra l’altro non bisogna dimenticare che il cibo in città cominciava a scarseggiare e la campagna poteva tornar utile anche in questo senso. In quel periodo le attività commerciali della famiglia stavano rallentando a causa dell’impossibilità di procurarsi nuove merci. La merce in precedenza acquistata si vendeva ma quella nuova non si comprava più, per mancato reperimento di materie prime. Ciò aveva permesso alla famiglia di avere una certa disponibilità finanziaria. La ricerca della casa iniziò nei Castelli Romani e fu un bene che nulla di adatto sia stato trovato perché qualche anno dopo, nel 1944, quella zona fu pesantemente colpita dalla guerra.
Un fratello della anziana nonna Clotilde aveva una casa nei pressi di Siena. Fu così che le ricerche si spostarono in quella zona. Prima fu acquistata una casa e riadattata perché potesse ospitare i vari gruppi familiari. In seguito si arrivò all’acquisto di una più ampia tenuta, Monaciano. L’acquisto fu possibile perché l’azienda era già una società anonima quindi, ufficialmente, non risultava come proprietà ebraica. Nessuna scelta fu più fortunata perché Monaciano fu il luogo della prima salvezza. Tra gli altri vi era l’agente agrario della fattoria Ettore Bonechi, uomo di grande coraggio unito a una conoscenza delle persone e con una grande capacità di muoversi in quei momenti terribili e straordinari (in seguito sarà riconosciuto Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem).
Nei primi tempi egli iniziò avventurosamente a fare arrivare del cibo a Roma mentre i ragazzini della famiglia lo vedevamo come una specie angelo. Ma fu solo più tardi quando, dopo l’8 settembre ’43, l’esercito tedesco invase l’Italia centro-settentrionale e le SS iniziarono le razzie e la deportazione degli ebrei, che si potè conoscere la vera natura di Ettore e il suo naturale e innato senso di giustizia. Da Roma giunse la terribile notizia, portata da un dipendente dell’azienda commerciale romana, della deportazione degli ebrei da parte dei nazifascisti. Restare nella grande villa di Monaciano, sotto gli occhi di tutti, sembrò imprudente. Così le famiglie si divisero fra alcune case coloniche più appartate. Ma non era finita. Il 4 novembre Bonechi ci recò di notte la notizia che il giorno dopo i nazifascisti avrebbero arrestato tutti gli ebrei di Siena. Bisognava immediatamente trovare un nascondiglio più sicuro. Ettore, dopo una ricerca frenetica, trovò una casa semi-abbandonata, senza luce, senza riscaldamento, in una tenuta non lontana, col benestare del fattore suo amico, il signor Sollecito Parri, e del proprietario Terrosi Vagnoli.
Di lì a poco fu necessario prendere delle decisioni drammatiche, perché nessuno poteva essere certo che sarebbero state quelle giuste. Così le varie famiglie si divisero: alcune decisero di far rientro a Roma, pensando che nascondersi in una grande città sarebbe stato più facile e che, spostandosi verso Sud, ci si sarebbe avvicinati alla linea del fronte e all’avanzata degli Alleati.
Ma la famiglia di Ugo, un altro fratello di Giacomo, prese invece un’altra strada: la moglie era di Torino e da quella città fu inviato, dai suoi genitori, un incaricato a prelevare la famiglia, per portarla nel Nord e di là farle attraversare il confine svizzero. Bonechi li accompagnò a Montevarchi dove consegnò loro la sua carta di identità e quella della cognata, per permettere di proseguire il viaggio senza rischi.
Altre persone hanno aiutato la famiglia in quei momenti: il professor Mario Bracci, che allora viveva nella Certosa di Pontignano adiacente a Monaciano e che ci ha seguito, consigliato, avvisato di quanto succedeva a Siena guidandoci nelle nostre peripezie; e il commissario di polizia, Giuseppe Gitti, che con la sua testimonianza ha fatto pervenire i documenti falsi presso l’uf#icio postale di Siena (questi primi documenti furono distrutti all’arrivo a Roma, successivamente ne furono fatti altri) e ha accompagnato parte della famiglia nella Capitale con due auto della Questura. Ma anche tutta la popolazione di Monaciano e di Siena che con solidarietà attiva e passiva ha protetto.
Dopo la liberazione di Siena avvenuta nel luglio del 1944 la villa e i fabbricati furono requisiti dall’esercito alleato fino alla fine della guerra. Pertanto prima il britannico maresciallo Harold Alexander e successivamente l’americano generale Mark Wayne Clark soggiornarono a Monaciano con i loro ufficiali. Dopo un viaggio avventuroso tra auto e treno l’arrivo dei Piperno a Roma e l’incontro con una donna di servizio, portiera in uno stabile, che mette a disposizione l’appartamento di una famiglia trasferitasi al Nord. In quell’immobile la signora Vanda era conosciuta. La sistemazione poteva risultare molto pericolosa (anni dopo saremmo venuti a conoscenza che verso Natale del 1943 avevano cercato degli ebrei): fu così che un’amica della nostra famiglia ci presentò come sfollati a madre Paola che allora dirigeva la foresteria del convento delle suore del SS Salvatore di Santa Brigida. Per prima entrò la signora Vanda con i suoi tre figli. Vedendo che c’era altro posto seguirono la nonna Clotilde e la famiglia di Silvio e Vera; in totale 13 persone.
Ai primi di gennaio la beata Elisabetta chiamò la signora Vanda e con tono tranquillo, ma deciso, la invitò a confessare per quale motivo una famiglia che non parlava un dialetto meridionale, ma con documenti del Sud, si era rifugiata nella foresteria del convento. Commossa da questo incontro, Vanda dichiarò che non era possibile dire una cosa non vera a una persona di tale carisma. Fece bene poiché, dopo essere stati accolti come sfollati, fummo subito trattati come fratelli; la beata Elisabetta riunì tutti gli uomini, che si pensava fossero più esposti, in un’unica stanza al primo piano, da cui si arrivava prima in chiesa se fossero venuti i nazifascisti e in cui aveva predisposto un nascondiglio; si seppe solo dopo che fece tutto questo aiutata solo da madre Riccarda Beauchamp Hambrough per non coinvolgere le altre consorelle in modo da non renderle responsabili. La pena prevista per chi aiutava gli ebrei era la fucilazione.
Ma oltre all’affettuoso aiuto diede qualche cosa che vale quanto la vita. A Vanda che l’interrogava circa il nostro comportamento verso la religione cattolica, di cui noi seguivamo le preghiere per non essere scoperti, disse di seguire le leggi della nostra religione. Fu così restituita la dignità a uomini cui era stata tolta nel 1938 dallo stillicidio di leggi e disposizioni che vietavano ogni giorno qualche cosa di più #ino all’ingresso nei campi di sterminio. La notte del 4 giugno 1944 giunsero a piazza Farnese, di fronte al convento, numerose camionette piene di soldati. Pensammo in un primo momento che fossero tedeschi. Invece parlavano francese: erano i soldati di Charles de Gaulle, combattenti insieme alle truppe alleate e venuti a prendere possesso della ambasciata francese accanto al convento. Si illuminarono tutte le finestre dell’ambasciata e, dopo anni di oscuramento, la cosa sembrava strana. Capimmo di essere finalmente salvi e liberi e che la prova era passata. La nostra famiglia ha avuto la fortuna di trovare molte persone che hanno aiutato, ma nessuno come la beata Elisabetta e madre Riccarda che ci hanno salvato la vita e restituito la dignità.

Piero Piperno (Italia Ebraica settembre 2013)

(14 novembre 2013)