Kesher – Mashhadi, dalla Persia a Milano
Una serata per incontrarsi e condividere. Grande successo per l’evento organizzato dal Progetto Kesher guidato da rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dedicato alla storia e alla vita degli ebrei persiani, e in particolari mashhadi, provenienti dalla città di Mashhad. Un gruppo che rappresenta una delle edot (“etnie”) storiche della Comunità ebraica di Milano e che è conosciuto per aver mantenuto, nei decenni, un legame molto forte con la propria origine e cultura. Origini e cultura che sono state condivise con il folto pubblico, negli aspetti più piacevoli, attraverso la ricca offerta di piatti tipici, e in quelli più complessi con una approfondita esposizione delle vicende storiche e sociali. Protagonisti dell’appuntamento nell’Aula Magna della Scuola proprio alcuni esponenti della comunità mashadi: Davide Nassimiha, consigliere della Comunità di Milano e presidente del Noam, la sinagoga e centro di riferimento fondamentale dell’edah, Davide Aziz, Naghme Haghigat.
“Il percorso che ci ha portati dove siamo oggi è lungo due secoli, per molti decenni le testimonianze sono state trasmesse oralmente di generazione in generazione, solo negli ultimi anni si è risvegliato anche un certo interesse a livello pubblico. Oggi siamo qui orgogliosi e felici di poter condividere la nostra storia con la comunità. Una storia che come tante storie ebraiche è fatta purtroppo di persecuzioni e vessazioni, ma che rappresenta anche la sfida vinta da un piccolo gruppo di famiglie riuscite a resistere e mantenere la propria identità” ha introdotto Naghme (melodia in persiano) Haghigat.
Tutto inizia nel 1839, quando la piccola ma fiorente comunità ebraica di Mashhad, città sacra sciita, subisce un terribile pogrom. Per salvarsi dalle violenze, alcuni ebrei si offrono di convertirsi all’Islam, le autorità religiose della città impongono allora la conversione forzata a tutti, in un giorno che verrà ricordato come Allahdad (la Giustizia di D.). Da quel momento la comunità sarà costretta a una doppia vita, non dissimile da quella dei marrani secoli prima nei territori spagnoli. A loro si fa riferimento come “jadid” dall’espressione “jadid al-Islam”, “i nuovi dell’Islam”. I jadid riescono però a preservare una forte identità, anche grazie al ritorno, una ventina d’anni dopo, di quelle famiglie che erano fuggite a Herat in Afghanistan per salvarsi dalla conversione (ancora una volta un ritorno forzato: gli ebrei di Herat furono deportati nuovamente a Mashhad dall’esercito persiano nel corso del conflitto con l’impero britannico per il controllo dell’Afghanistan). A raccontare tutto questo è stato David Aziz: “Così la nostra identità si trasformò da identità religiosa a identità sociale, con una coesione fortissima, che è stata tramandata di padre in figlio fino a oggi” ha sottolineato, rievocando alcuni dettagli della vita in clandestinità, le astuzie per non farsi scoprire dalle autorità islamiche e rischiare la morte per apostasia, la dolorosa necessità di stipulare promesse di matrimonio fra piccoli appena nati per evitare, specie alle femmine, che venissero portate via bambine per essere date in moglie fuori dalla comunità, come più volte accaduto. Fu lo scià Reza Khan Pahlavi, padre di Mohammad Reza Pahlavi, a consentire ai jadid di tornare all’ebraismo negli anni Venti. Ma nel frattempo era nata l’Unione sovietica e il commercio con il vicino Turkmenistan che era stato la prima fonte di reddito per gli ebrei di Mashhad, per tanti anni, terminò. Impoveriti e stanchi delle vessazioni che continuavano a subire, i mashhadi tra il 1946 e il 1960 lasciarono in massa la città, spostandosi a Teheran e poi nel resto del mondo. Milano rappresentò una delle mete privilegiate, oltre a New York e Israele.
“La storia da cui proveniamo ci insegna che per mantenere viva una comunità, il segreto fondamentale è quello di stare insieme, sentirsi un gruppo, trascorrere tempo negli stessi spazi, perché solo così si impara davvero a partecipare a gioie e dolori del tuo vicino, e ad aiutarlo quando ne ha bisogno. Questo è quello che vogliamo trasmettere ai nostri giovani che sono la prima preoccupazione” ha sottolineato Nassimiha.
Dopo gli interventi dei relatori, c’è stata l’occasione per riflettere, anche grazie agli interventi del pubblico, sul rapporto tra l’edah persiana e la Comunità milanese nel suo complesso. Un rapporto fatto di accoglienza e di scambio nei decenni, ma anche di momenti di difficoltà, con qualche incomprensione da ambo le parti.
A intervenire nel corso della serata anche la storica della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea e consigliere UCEI Liliana Picciotto (in sala tra gli altri anche il vicepresidente UCEI Roberto Jarach), che ha brevemente illustrato il Progetto Edot del Cdec, che si propone di raccogliere le testimonianze e le storie di tutte quelle comunità etniche che dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi hanno reso la Comunità ebraica di Milano un laboratorio di integrazione e convivenza davvero unico.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
(22 novembre 2013)