Memoria, la minaccia banalizzazione
“L’iperbole è una figura retorica che consiste nel portare all’eccesso il significato di un’espressione, amplificando o riducendo il suo riferimento alla realtà per rafforzarne il senso e aumentarne, per contrasto, la credibilità”, si legge nella definizione della Treccani. Comici e politici ricorrono spesso, quanto meno negli ultimi tempi, all’uso dell’iperbole: i primi come arma satirica per far ridere il proprio pubblico, i secondi per porre l’accento su problematiche che hanno a cuore. Il portare all’eccesso sembra un fenomeno particolarmente diffuso nel panorama del dibattito pubblico italiano. È lecito però chiedersi se queste esagerazioni non abbiano un confine. Nel caso specifico, quando parliamo di Shoah e di persecuzioni, quello segnato dallo sdoganare la banalizzazione di eventi che rappresentano un passato doloroso su cui, a giudicare da alcune esternazioni e rispettive reazioni, non si è ancora riflettuto abbastanza. In questo quadro si inserisce lo spettacolo messo in scena lo scorso 8 novembre dal noto comico genovese Maurizio Crozza nel suo Il paese delle meraviglie, seguito da milioni di italiani. Citando il film premio oscar di Mel Brooks The producers (1968 – in italiano “Per favore non toccate le vecchiette”) e il paradossale spettacolo la Primavera di Hitler che il regista metteva in scena, Crozza ha proposto un Berlusconi accerchiato da ballerini vestiti da nazisti, ironizzando sulla oltraggiosa affermazione dell’ex primo ministro, inserita nell’ultimo libro di Bruno Vespa (“i miei figli si sentono come gli ebrei sotto Hitler”). Saluti romani, passi dell’oca, una svastica rappresentata dai ballerini, l’immagine di Hitler, scimmiottano il repertorio di Brooks con l’aggiunta al fondo della scritta il “denaro rende liberi” e un Berlusconi- Crozza che canta “come gli ebrei la mia family, li han deportati con il jet”. Divise le reazioni del pubblico. Tra i commenti al video c’è chi plaude e sottolinea come “Mel Brooks ha fatto esattamente la stessa cosa in un suo acclamatissimo film. Come altre decine di artisti, uno fra tutti Benigni nel suo ‘La vita è bella’. Crozza ha solo copiato da lui”. E c’è invece chi parla di “spettacolo macabro e stupido” in cui l’orribile periodo nazista “viene sminuito del suo orrore”. Tanto che c’è chi si chiede: “Come si fa ad applaudire uno spettacolo del genere?”.
Daniel Reichel
“Paradossalmente l’episodio è servito a portare l’attenzione sul vero significato della Memoria. A riflettere sulla banalizzazione di cui è vittima la Shoah. Dobbiamo guardare oltre”. L’episodio di cui parla il sociologo e sondaggista Renato Mannheimer, docente di Analisi dell’opinione pubblica all’Università Bicocca di Milano, è la discussa affermazione di un leader politico italiano “i miei figli come ebrei sotto Hitler” riportata nel libro del giornalista Bruno Vespa “Sale, zucchero e caffé” (ed. Mondadori). Mannheimer, intervistato da Pagine Ebraiche, invita a riflettere su una scala più ampia perché c’è “un trend diffuso nel ridimensionare il valore storico della Memoria ed è necessario uno sforzo educativo, in particolare nei confronti dei giovani, perché questo non accada”. In un mondo in cui la comunicazione è istantanea e le informazioni si susseguono a grande velocità, sostituendosi in continuazione l’una all’altra, anche le cose realmente significative rischiano di essere messe in discussione o marginalizzate.
Anche se “il fatto che il tempo annulli ogni cosa non è un carattere esclusivo del mondo moderno, credo sia sempre stato così”, afferma il sociologo. “Dobbiamo evitare di immaginare il presente come peggiore del tempo di ieri”, conferma il direttore dell’Istituto Ixé Roberto Weber, che però aggiunge: “In questo rumore costante che ci assorda e in cui viviamo è difficile trovare un senso alle cose, anche a elementi fondativi dell’oggi come la Shoah e la Resistenza. Queste vivono se vive un nervo sensibile che le alimenta”. Una banalizzazione, dunque, che si potrebbe dire frutto delle amnesie e delle distrazioni a cui siamo soggetti ma che non per questo vanno accettate, concordano Mannheimer e Weber. Che siano affermazioni di politici o battute di comici, sembra che usare la Shoah a sproposito come termine di paragone o ricorrere alle trite battute sugli ebrei tirchi non trovi più l’argine pubblico. Anche l’offesa pretende legittimità, perché poi si può smentirla, perché le parole sono usurate e perdono il loro significato. “Prendiamo la parola sdegno – riflette Weber – è una parola forte, che personalmente uso raramente, solo quando effettivamente provo sdegno mentre nei giornali è un continuo ricorrere a questo termine. Se le parole subiscono un’usura quotidiana, è evidente che il loro significato salta”. Tra coloro a cui non è piaciuto lo spettacolo di Maurizio Crozza, che ironizzava sulla frase citata dell’ex premier, c’è proprio Weber. “Parlare di queste cose in una dimensione di superficialità è pericoloso. Di solito apprezzo Crozza – afferma – con la sua ironia mi sembra abbia assunto il ruolo di disvelatore di ciò che succede attorno a noi; mi sembra di capire meglio le cose. Ma in questo caso non mi è piaciuto”. Che valore assume allora la Memoria di fronte a questo continuo tentativo banalizzante e di sminuirne il carattere centrale nonché di patrimonio del paese? “Il nostro è un Paese senza memoria e verità, scriveva Leonardo Sciascia, e io per questo – dice Weber – cerco di non dimenticare”. Una sentenza simile a quella di Mannheimer che sottolinea come non sia possibile parlare di coscienza nazionale perché l’Italia “non è ancora una nazione” e fino a che non lo diventerà “sarà molto difficile che si sedimenti una coscienza civile”.
A 75 anni dall’emanazione delle Leggi razziste la decontestualizzazione della Shoah e delle persecuzioni “è ormai un’abitudine” e il fenomeno non potrà che intensificarsi “con la scomparsa dell’ultimo testimone”. Ne è convinto Vittorio Ravà, fondatore di Maieutike Techne, che invita a reagire in modo diverso alle provocazioni, soprattutto se pronunciate con il chiaro obiettivo di generare scandalo. “La sfida di fare Memoria si è ormai stabilizzata, ma fa parte del paesaggio. La lotta vera non è contestare quello che dice il personaggio di turno, e in questo senso le vicende di questa stagione sono emblematiche – afferma Ravà – ma lavorare seriamente nelle scuole affinché le generazioni future abbiano una reale consapevolezza di ciò che è stato”.
Ad amplificare il problema, sostiene, un coro di voci multiforme che si leva dal mondo ebraico generando confusione nei media e nell’opinione pubblica: “La comunicazione va centralizzata. Per essere efficaci, a parlare in nome degli ebrei italiani – sottolinea – dovrebbe essere soltanto l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane”.
“Mi sono fatta l’idea che il tema della Memoria sia in realtà un tema molto recitato. Un tema appannaggio degli addetti ai lavori, ma non particolarmente elaborato dalla pancia della popolazione che non coglie del tutto cosa la Shoah abbia rappresentato nella quotidianità delle persone”. È la riflessione di Betti Guetta, ricercatrice della Fondazione Cdec – Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. Per elaborare questo concetto la studiosa ricorre a un’immagine dell’infanzia: l’espressione onomatopeica con cui si mettevano in guardia i bambini nei confronti di determinate situazioni e problematiche. “La Shoah – commenta Guetta – viene usata un po’ come il ‘baubau’. Un’idea, un pensiero vuoto dietro al quale c’è poco o niente”. Di grande interesse sociologico è anche la reazione di chi viene colto in fallo. “Tutti dicono che sono amici degli ebrei ma il più delle volte – riflette Guetta – non c’è una chiara dichiarazione di consapevolezza. Come per dire: ho raccontato la barzelletta, ma poi ho gli amici”. Tanti, osserva ancora la ricercatrice, possono essere i livelli di banalizzazione della Shoah. A preoccuparla, più della squallida boutade di turno, è soprattutto l’equiparazione tra Auschwitz e Gaza. Un paragone impossibile “ma che purtroppo attecchisce sempre di più”.
Le modalità per deformare la memoria della Shoah sono diverse. A volte la si decontestualizza anche paragonandola ad altri genocidi, sostiene il presidente della Fondazione Museo della Shoah Leone Paserman. “C’è dell’ignoranza diffusa, come ad esempio nell’operazione che porta a mettere i diversi genocidi in un’unica categoria. Non voglio sminuire lo sterminio degli armeni o altri casi simili ma la Shoah – chiosa Paserman – è differente, è stata una cosa unica nella storia, il tentativo scientifico e politico di sterminare l’intero popolo ebraico. Non accetto questi paragoni”. La sua visione di come muoversi di fronte alla banalizzazione del passato storico Paserman la spiega attraverso le attività della Fondazione. “Alla base della realizzazione del Museo della Shoah – sottolinea – c’è l’idea insegnare, soprattutto ai più giovani, a prendersi cura della Memoria. Noi ci siamo sempre smarcarti dal fare un uso politico della Shoah. Lo scopo è educativo e credo che la maggior parte della cittadinanza sia molto attenta a queste tematiche: lo dimostra il successo di pubblico della mostra sul 16 ottobre del Vittoriano”. Robert Hassan, comunicatore, si domanda infine se il compito di chi è chiamato in prima battuta a difendere il valore della Memoria sia adeguatamente assolto. “Trovo che all’interno delle comunità ebraiche non sia ancora chiara la distinzione tra marketing e comunicazione. Sul fronte della Memoria – osserva – è necessaria una scelta: o si agisce secondo le leve di marketing con la consapevolezza di quanto sia difficoltoso e complesso buttarsi nell’arena oppure si sceglie di fare soltanto comunicazione sapendo che la Memoria resta comunque una sensibilità soggettiva”. Il suggerimento di Hassan è un “approccio maschera”. Utilizzare cioè quello che in gergo viene denominato messaggio poliqualitativo. Un concetto che si esplicita in due punti essenziali: non chiarire del tutto la propria posizione agli avversari e allo stesso tempo lavorare nella struttura della società creando legami solidi con altre realtà e istituzioni.
(Pagine Ebraiche gennaio 2013)
(1 dicembre 2013)