Rivincita su Skakespeare
Per negare che Il mercante di Venezia sia un testo antisemita bisogna arrampicarsi sugli specchi, e neppure su specchi particolarmente agevoli. Anche se le regie contemporanee cercano quasi sempre di edulcorarla, la commedia mette inevitabilmente a disagio, non tanto perché presenta l’ebreo come un personaggio negativo quanto perché nel comportamento e nei discorsi di Shylock scorgiamo qua e là elementi della cultura ebraica in cui anche noi ci riconosciamo, ma stravolti e travisati così come li vediamo tante volte stravolti e travisati nella nostra vita quotidiana: l’attenzione alla kasherut presentata come un’assurda superstizione o come un pretesto per tenere a distanza i non ebrei, il dovere di ricordare le persecuzioni subite interpretato come cieca sete di vendetta, i valori del lavoro e dell’impegno personale derisi e misconosciuti (è sciocco darsi da fare se per diventare ricchi sfondati basta aprire lo scrigno giusto), l’esigenza di una legge uguale per tutti ignorata e incompresa. E il disagio che si sente per tutto il tempo scoprendosi a parteggiare per il cattivo e a provare pochissima simpatia per le vicende sentimentali dei buoni diviene vera e propria amarezza nella scena finale con l’imposta conversione forzata.
Eppure questo testo così poco digeribile contiene il “nostro” monologo, quello che l’altra sera ho sentito da un inedito Silvio Orlando nel teatro Carignano di Torino immerso in un silenzio assoluto, quasi irreale: “Non ha occhi un ebreo? Non ha mani un ebreo, organi, membra, sensi, affetti, passione? Non è nutrito dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi, assoggettato alle stesse malattie, curato dagli stessi rimedi, riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e dalla stessa estate, come lo è un cristiano? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?” Parole così forti, così convincenti, da sfuggire probabilmente alle intenzioni del loro stesso autore. Continuamente ripreso e citato nei contesti più disparati (qualche anno fa lo abbiamo messo in bocca a Mordechai in una recita di Purim), il monologo vive di vita propria, come il suo fratello “Essere o non essere”, e curiosamente la prima volta in cui l’ho sentito – molti anni prima di leggere o vedere il Mercante di Venezia – è stato proprio nel film “Essere o non essere” di Mel Brooks (remake dell’omonimo film di Lubitsch che in italiano si chiama “Vogliamo vivere”), in cui il sogno di un attore di recitare il monologo di Shylock si avvera nella Polonia occupata dai nazisti in modo divertente e imprevedibile. Chissà cosa avrebbe detto Shakespeare di queste sue parole estrapolate dal contesto, rubate, portate in giro di qua e di là e divenute in barba al loro autore uno dei più conosciuti e citati manifesti contro l’antisemitismo? Cosa direbbe oggi scoprendo che l’intera commedia è conosciuta forse più per quel monologo che per tutto il resto? Il povero Shylock non è riuscito ad avere giustizia per i torti subiti, ma dopo secoli si è preso questa piccola rivincita sul suo autore, e noi con lui.
Anna Segre, insegnante
(13 dicembre 2013)