Lucidi deliri
Puntuali, dopo una settimana di travagli, dove in più città lo “sciopero” (in realtà una serrata di alcune categorie del commercio e degli autotrasportatori) del cosiddetto «movimento dei forconi» si è tradotto in una serie pressoché infinita di disagi per la collettività, sono arrivati i deliri antisemitici. Tale Andrea Zunino, coltivatore piemontese, classe 1953, convertitosi all’Islam sufista, uno dei leader dell’eterogeneo movimento, ha dichiarato, a latere delle piccole ribellioni che si sono trasformate in violenze di piazza, quello che, a suo dire, i rivoltosi vanno cercando, ossia: «la sovranità dell’Italia, oggi schiava dei banchieri come i Rotschild: è curioso che cinque o sei tra i più ricchi del mondo siano ebrei, ma è una cosa che devo approfondire. Penso che Hitler, che probabilmente era pazzo, si sia vendicato con l’antisemitismo del voltafaccia dei suoi iniziali finanziatori». In poche righe è raccolto un universo di significati, tipici del complottismo, quell’insieme di concezioni e di interpretazioni che leggono nel presente, e nei processi di globalizzazione, il dispiegarsi di un progetto unitario, quello del cosiddetto «New World Order». Un progetto dietro il quale, ça va sans dire, si celerebbero, per l’appunto, gli ebrei. Tornare su questo costrutto mentale, confutandolo parola dopo parola, è un esercizio che abbiamo già fatto molte volte. A questo punto troppe, in tutta sincerità. Il fatto che si ripeta nelle affermazioni strologanti di questo piuttosto che di quello, a destra piuttosto che a sinistra, in un momento di grave disagio sociale invece che in un periodo di relativa tranquillità, indica come la nefasta tradizione antisemitica sia ben lontana dall’essersi consumata. Il corollario è poi sempre il medesimo: il richiamo al «popolo», quello che sarebbe composto dai «veri italiani»; l’invito a trasformare il malumore in rancore e poi in rabbia furiosa, intendendo quest’ultima come il propellente per scardinare i complessi equilibri sociali, politici e istituzionali, tutti condannati senza alcun appello; la lotta contro le «oligarchie» e le «élite», disegnate come un blocco compatto, unito da un vincolo etnico se non razziale; il leitmotiv della nobiltà di una «lotta di popolo» che non sarebbe né di destra né di sinistra perché il vero combattimento è tra ciò che è sano (le presunte radici identitarie di una «comunità» ancestrale) e ciò che invece sarebbe patologico (la globalizzazione e la «contaminazione» tra individui, culture e storie) e così via. Chi ha avuto modo di osservare da vicino gli scontri che si sono succeduti in quest’ultima settimana, dopo l’appello alla ribellione collettiva distribuito il 9 dicembre (dove enfaticamente si recitava di essere «contro il Far West della globalizzazione che ha sterminato il lavoro degli italiani; contro questo modello di “Europa”; per riprenderci la sovranità popolare e monetaria; per riappropriarci della democrazia; per il rispetto della Costituzione; contro un governo di nominati; per difendere la nostra dignità»), ha potuto agevolmente riscontrare come la connotazione politica di una parte cospicua dei manifestanti fosse palese. Dietro alcune bandiere italiane, tra manifestanti che recitavano, in maniera neanche troppo convinta, che «qui ci sono solo cittadini italiani», emergeva agevolmente la matrice fascistoide dell’intera regia. In una città come Torino, che è stata tra le più bersagliate dagli atti di sollevazione urbana e di disobbedienza incivile, la miscela tra tifoserie ultras, esponenti della destra radicale, alcuni appartenenti ai cosiddetti centri sociali alla ricerca di occasioni per menare le mani (benché gli esponenti di questi ultimi si siano ben presto smarcati dalla protesta) ed elementi esagitati del commercio ambulante e del mondo dell’autotrasporto, ha avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto imputabile ad una qualche forma di partecipazione popolare. Che non c’è stata, poiché i cittadini hanno semmai subito il sequestro di una metropoli, divisa in più tronconi a causa dei presidi volanti e dei picchetti contro il traffico, succedutisi di ora in ora e di giorno in giorno. Che sia sempre più marcata la tentazione di mettere il cappello politico sul diffuso disagio sociale che va montando in un paese, il nostro, in crisi non solo per ragioni economiche e sociali ma anche culturali, purtroppo non può né deve sorprendere. A meno che non si intenda recitare la parte degli ingenui. Registriamo l’afasia e l’autismo della politica, il silenzio delle élite (quelle vere, non quelle immaginarie, di natura “razziale”), le crescenti difficoltà delle istituzioni ad assolvere il proprio ruolo e molto altro ancora. Che a ciò si accompagni la proiezione di un film già visto, quello dell’antisemitismo, se non può sorprendere eccessivamente non può neanche indurre in quella falsa condiscendenza per la quale, come certuni già vanno dicendo, certe dichiarazioni sarebbero solo il frutto di iniziative personali, come tali non condivise dai più. Poiché è vero invece l’opposto, ossia che la «voce dal sen fuggita» potrebbe essere solo la punta di un iceberg, quello del risentimento che si nutre di perfidi luoghi comuni, che non è tramontato con il fascismo storico. E qui l’inquietudine si fa inevitabilmente affanno.
Claudio Vercelli
(15 dicembre 2013)