I quaderni neri
Martin Heidegger torna a far parlare di sé con gli annunciati Quaderni Neri, prossimi alla pubblicazione nel marzo 2014. Diari inediti, in cui sarebbe ormai esplicito un livore antisemita da parte del filosofo tedesco.
Viene ripresa così, l’ampia discussione sul suo rapporto controverso con la politica nazista, e da qui sorge spontanea una nuova riflessione sull’influenza e l’eventuale responsabilità del pensiero heideggeriano, sul nazismo e sulla stessa filosofia contemporanea, che in gran parte, specie in ambito fenomenologico, ne ha seguito le redini.
Indagine resa ancora più critica ed enigmatica dal momento che tra gli allievi e gli epigoni del filosofo si contano numerosi intellettuali ebrei, tra cui Hanna Arendt, Emmanuel Lévinas, Karl Loewith, Günther Anders , e dove lo stesso Heidegger fu allievo precedentemente di un altro pensatore ebreo, Edmund Husserl. Tra questi, s’incontra chi, dopo la compromissione politica del “maestro”, assunse una posizione neutrale o talora difensiva, chi invece ne prese formalmente le distanze, rimarcando a tal proposito il suo pensiero anti-umanista affine ad un’eventuale deviazione totalitaria: emblematico il concetto in Essere e Tempo di Geworfenheit, “deiezione” in riferimento alla condizione umana, dove l’individuo “gettato” nel mondo, non è padrone della propria esistenza che scorre inesorabile verso la sua fine. Difficile non scorgerci, profeticamente qualche anno dopo, la realizzazione tangibile nello status dell’internato in un lager, privato di diritti e diretto al progressivo annientamento .
Appare dunque più complesso, riprendere in filosofia, la classica distinzione tra uomo/pensiero o opera, poiché il discorso filosofico dovrebbe proprio interferire con la politica e lo spirito del tempo, al contrario della fiction che non sempre ha fini morali o pedagogici. Platone e J. Rousseau non scrissero rispettivamente La Repubblica e il Contratto Sociale per scoraggiati professori delle superiori, ma presumibilmente per i loro e, ahimè, nostri statisti. Così Heidegger inevitabilmente si rivolse alla società tedesca degli anni ’30, ed è innegabile non attribuirgli delle responsabilità, anche solo per non essersi mai opposto ufficialmente al nazismo e all’inizio delle persecuzioni anti-ebraiche.
Ma nella considerazione che purtroppo, l’intera cultura occidentale è pervasa e intrisa di sentimenti antisemiti e di ostilità verso il popolo ebraico – la stessa età moderna, oltre la scoperta delle Americhe, si apre con il Decreto di Alhambra – e dove innumerevoli sono stati gli scrittori, i compositori, i filosofi che nell’arco della storia accolsero questa avversione, lasciandolo trasparire sovente anche nelle proprie opere. Sarebbe allora idealmente auspicabile, un giudizio sul prodotto artistico e intellettuale, sub specie aeternitatis, e una valutazione sull’autore secondo la contestualizzazione del periodo storico, della weltanschauung e del pensiero dominante all’epoca, su come questo ha potuto poi influire nell’antisemitismo delle classi intellettuali.
Indubbiamente l’ideologia nazista si è avvalorata e ha preso ispirazione dal Folklore germanico, dal Romanticismo tedesco o da concetti derivati dalla filosofia ottocentesca, ma si tratta di fenomeni anteriori a cui è difficile assegnare una qualche colpevolezza, aggiungendo poi, come accade per ogni interpretazione, un travisamento, una deformazione con il fine di portare la lettera ad un distorto uso pubblico e politico.
Il caso di Heidegger è differente, perché egli è stato un contemporaneo di Hitler, ha vissuto con i propri occhi il periodo più buio e tragico della storia occidentale, e forse la “colpa” più grande è stata proprio questa, “l’essere stato gettato” nella Germania Nazista, e non essersi opposto a tale contingenza. La sua filosofia ha finito per ripercuotersi sulla sua stessa persona.
Credo però che le responsabilità si limitino al suo vissuto, e non oltre.
Improbabile direi, che il possibile antisemita di oggi si possa nascondere nell’avido lettore delle pagine di Heidegger, oppure di un Céline, o dell’Oliver Twist di Charles Dickens, ma piuttosto nell’ignoranza di chi non avrà altra formazione che siti e programmi TV spazzatura, curve estremiste e comizi demagogici e qualunquisti.
La lettura offre generalmente spazio e tempo debito per un dialogo tra autore e lettore, ponendo questi in un giudizio critico super partes, anche quando l’autore propugna una certa ideologia.
George Mosse riferendosi alla “nuova politica” manifestata nel nazi-fascismo, scriveva come fosse l’azione il motore del largo seguito delle masse, piuttosto della teoria, questa era stata trasferita direttamente nelle forme liturgiche: riti, simboli, associazioni, monumenti. Per essere un buon nazista non era necessario leggersi il Mein Kampf, bastava seguire l’intonazione delle parole del Führer, o per il fascista osservare la gestualità di Mussolini.
E oggi la situazione è ancora più accentuata, lo scrittore e il filosofo non spaventano più come invece preoccupa il comico o il buffone di turno.
Francesco Moises Bassano
(3 gennaio 2014)