…Scalfari
Proseguendo il suo dialogo con Papa Francesco, il giornalista Eugenio Scalfari sente la necessità di inquadrare da un punto di vista teologico la dottrina cattolica, stabilendo un dualismo netto fra la legge mosaica (che disegnerebbe un Dio che “non contempla diritti e non prevede libertà”) e la dottrina evangelica del Dio misericordioso. Lo fa nel suo consueto editoriale domenicale (La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato) e le reazioni sulla stampa – fatti salvi alcuni mugugni su Facebook e una nota polemica di Riccardo Di Segni che giustamente lo paragona all’eretico Marcione – sono state nulle. L’ipotesi più probabile è che di quel che dice Scalfari all’Italia di oggi interessa ormai pochino, ma mi permetto di dire che lasciar cadere le provocazioni teologiche dell’ex-direttore di “Repubblica” sia un grave errore, innanzitutto culturale. Non si può gridare all’antisemitismo di fronte a ogni anche minimo gesto pubblico (le esternazioni di Anelka, piuttosto che i deliri di qualche politico nostrano) e poi tacere sugli apparentemente colti editoriali di una delle penne più seguite del giornalismo italiano. Certo, va detto che le idee di Scalfari sul Dio degli ebrei sono già note e sono state a suo tempo criticate. Nelle sue non occasionali sparate anti-israeliane egli ha più volte fatto ricorso a motivazioni teologiche per definire l’operato politico militare di questo o quel governo di Israele, e in generale questo pensiero ha guidato il poco benevolo sguardo che la redazione di “Repubblica” da sempre dimostra nei confronti di Israele. In questo caso tuttavia mi sembra che si vada oltre, proponendo una radicale quanto vecchia e disinformata critica teologica ai fondamenti stessi dell’ebraismo. Una visione che è nella sostanza e nella forma inequivocabilmente antiebraica, e che coinvolge apertamente nella sua retorica la stessa Chiesa di Roma. In sostanza Scalfari afferma che il Dio degli ebrei impone norme e divieti, è vendicatore e non ha misericordia, mentre il Dio dei vangeli è il Dio dell’amore. Afferma poi che la Chiesa si sarebbe colpevolmente conformata al Dio ebraico per secoli; solo distaccandosene (con la Evangelii Gaudium di papa Bergoglio che secondo Scalfari “abolisce il peccato”) essa può aspirare a un confronto efficace con il mondo secolare. Non voglio discutere la sostanza del dialogo teologico che il giornalista intende proseguire con Papa Francesco da una posizione che – almeno nelle intenzioni – vorrebbe essere laica. Quello che invece mi preme è denunciare l’irrefrenabile quanto forse “necessaria” volontà di Scalfari di stabilire le radici teoretiche del suo ragionamento su una radicale critica alla teologia ebraica. Il mio allarme parte dal fatto che – come nel più classico dei canoni antisemiti – la polemica non coinvolge la complessità del pensiero ebraico, né discute le fonti scritte e orali che ne stanno alla base. Quel che fa è offrire al lettore delle definizioni (false e semplicistiche) della dottrina biblica per poi contestarle contrapponendole a una visione (altrettanto falsificata) del discorso evangelico. Non è vero che “la legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla diritti, non prevede libertà”. La letteratura rabbinica (fondata sull’esperienza dei Farisei con i quali lo stesso Gesù storico dialogava su basi condivise) ragiona con profondità sul concetto di libertà proprio fondato sulla necessità delle norme, di diritti e doveri certi e condivisi. Un concetto alto ed etico della Legge, che fa di Mosè un precursore del Diritto. E il Gesù tutto amore e misericordia di cui parla Scalfari, contrapponendolo al Dio autoreferenziale e autoritario degli ebrei, non si sarebbe mai sognato di contravvenire alla normativa rabbinica. Al contrario, ne identificava i fondamenti proprio nel concetto di amore: quell'”ama il prossimo tuo come te stesso” che prima di essere precetto evangelico era un dettato fondamentale della Bibbia ebraica (ma questo il giornalista decide di ignorarlo, poiché poco funzionale al suo ragionamento).
Scalfari prosegue lamentando che “non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla Trinità. Il Messia – che ancora non è arrivato per gli ebrei – non è il Figlio ma un Messaggero che verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano. Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso che si possa definire chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge”. Insomma, rimprovera agli ebrei di non aver accettato la teologia cristiana, qui presentata fra l’altro in maniera pasticciata, componendo una marmellata che va da San Paolo al Concilio di Nicea, passando per l’apocalittica senza soluzione di continuità.
Siamo evidentemente di fronte a quello che i neuroscienziati chiamano un “bias cognitivo”, di cui suo malgrado il fondatore di Repubblica è rimasto vittima: esprimere giudizi o, peggio, pre-giudizi, sulla base di interpretazioni controllate solo in maniera superficiale e non connessi semanticamente fra loro conduce inevitabilmente a formulare errori di valutazione generando giudizi fuorvianti che creano mostri concettuali. E’ quel che capita quando ci si improvvisa teologi o filosofi invece di fare il proprio mestiere, n questo caso di giornalista. L’esito inevitabile è quasi comico: lo stesso Scalfari, dopo aver menato fendenti alla cieca prima all’ebraismo e poi alla tradizione storica della Chiesa, chiude affermando che i “non credenti” (come lui, immagino) dovrebbero cogliere gli spunti proposti da questo “Papa rivoluzionario” e “aprirsi al dialogo con altre culture”. “Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito”, dice Scalfari: un vero specchio di coerenza.
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(3 gennaio 2014)