Il gesto e il senso
Facile prevedere che la “quenelle”, il gesto furbescamente insultante sdoganato e promosso dal comico (sic!), umorista (doppio sic) e “antisionista” afro-europeo Dieudonné M’Bala M’Bala, abbia una discreta fortuna e, quindi, un qualche futuro. Con quello che ciò comporta, poiché dietro il gesto, come sempre in sé banale, c’è invece un piccolo universo di significati, tutti rivolti in chiave antiebraica. Fortuna e futuro, plausibilmente, non solo in Francia, terra di elezione del summenzionato attore-politico (i due ruoli sono oggi forse distinguibili in quei tanti che calcano le scene pubbliche?), ma in altre parti d’Europa, dove forse misureremo gli effetti inquietanti di questa nuova “moda”. Le banlieue delle metropoli d’Oltralpe sono state già dagli anni Sessanta territorio di sperimentazione, tra le tante cose, anche di forme di pseudo-opposizione sociale. Poiché è lì che si concentrano le contraddizioni e i risultati, ben poco esaltanti, delle prassi post-coloniali europee (non solo di quella francese) e il sommarsi, interagendo tra di loro, delle incongruenze di politiche sociali ed economiche che hanno dato fiato a nuove forme di esclusione. “Territori perduti della Repubblica”, come già più di dieci anni fa, studiosi francesi e insegnanti di “prima linea”, quelli che ogni giorno si trovano ad operare, faccia a faccia, con il disagio che si fa non opposizione bensì ribellione anarcoide fine a sé, definivano le grandi conurbazioni, i quartieri (e soprattutto le scuole) dove l’antisemitismo si coniuga, saldandosi vigorosamente, a sessismo, machismo, etnicismo, fondamentalismo e quant’altro. Il “Malcolm X” francese (c’è sempre qualcuno disposto a stabilire analogie, non importa quanto improprie, con il recente passato, scambiando un meschino millantatore per il nuovo liberatore) cerca, trovandolo, in quell’ambiente, soprattutto tra i giovani di terza generazione, oramai nipoti degli immigrati, un asse politico su cui avanzare le sue piattaforme rivendicative e, soprattutto, lasciare intendere ai suoi interlocutori che può contare su di una robusta base di consenso. Ne canalizza quindi la rabbiosità, altrimenti spoglia e priva di forza, convogliandola verso un qualche esito non autolesionista. A cerchi concentrici si muove poi verso altri obiettivi, giovandosi della consunzione della distinzione tra destra e sinistra, soprattutto dal momento in cui quest’ultima si è spogliata definitivamente di qualsiasi afflato emancipatorio, lasciando ogni discorso sul nesso tra lavoro e identità al caso, alle circostanze del momento e ai rapporti di forza. Non è quindi un evento fortuito se Dieudonné si trovi a suo agio anche con un personaggio quale il vecchio leader del neofascismo francese Jean-Marie Le Pen. Poiché ne condivide una certa filosofia di fondo, che è quella della lotta alla borghesia (ebraica) attraverso il ritorno al sogno del comunitarismo, l’idea che alla forza del denaro si opponga solo quella delle radici etniche. Un falso, da qualsivoglia punto di vista lo si intenda considerare, ma che ha una fortuna incredibile. In tal modo sfonda porte aperte, contando anche sul fatto che queste hanno in genere cardini debolissimi. Nell’insalata di temi e problemi che condiscono i suoi spettacoli – non è un caso se, anche al di fuori della Francia, la ruffiana avversione al potere passi sempre di meno per il tramite dell’attività politica tradizionale, considerata in sé indice di corruzione, a prescindere da qualsivoglia riscontro di merito, e venga quindi sostituita dal dileggio pubblico del mattatore di turno del palcoscenico – il guitto si rivolge sornionamente anche alla sinistra, o a quello che di essa rimane, miscelando antischiavismo, diffidenza verso l’Europa dei “banchieri” (tema trasversale, oramai), esaltazione del vittimismo (con la facile e ingannevole equazione che fa delle vittime i “buoni” per ogni circostanza), un terzomondismo tanto ribollito quanto comunque funzionale ad un immaginario fermo a cinquant’anni fa e l’antiamericanismo di sempre, anche in assenza dell’America medesima. Musica per le orecchie incartapecorite di chi pensa che il tempo non passi mai ma anche per quanti hanno bisogno di un piccolo duce che, nel nome della “libertà di espressione”, dia ad essi la suggestione e l’illusione di avere trovato chi li condurrà verso un qualche orizzonte di gloria. Torniamo alla quenelle, dalla quale siamo partiti. La fortuna di certi simbolismi facilmente riproducibili, perché di immediata fruizione nella vita quotidiana, è peraltro quasi sempre certa laddove essi indicano quell’appartenenza diretta di gruppo (non verificabile né, tanto meno, argomentabile ragionevolmente) che si riannoda al richiamo atavico alla lotta contro l’oscuro sistema. Che è poi l’altro nome che l’abituale adolescenzialismo dei fragili movimenti sociali, cresciuti all’ombra della progressiva consunzione della coesione sociale e della fine dell’integrazione, dà al suo bisogno di manifestarsi purchessia. Un tempo si sarebbe parlato di lotta contro la «società», quella dei padri, per sostituire a essa quella sopravveniente dei figli. Adesso la prospettiva è di respiro assai più corto, asfittico. Non c’è nessuno progetto, soltanto la rabbiosità che deriva dal combinato disposto tra senso di esclusione, mancanza di prospettive, ossessivo ripiegamento sul presente e dirompente rancore. Anche per questo, trattandosi di un fenomeno che assume, nell’età di internet, i caratteri della viralità (basti verificare quanti contatti su You Tube Dieudonné riesce ad ottenere), ossia della veloce diffusione, senza vettore (e filtro) alcuno che non sia quello dell’imitazione, avrà, come già si diceva, spazi e prospettive. Un varco gli è però stato comodamente aperto dal populismo, che in anni e anni di pervicace impegno, ha livellato molto se non tutto: tra le tante cose, il senso (positivo, ossia costruttivo) delle differenza, trasmutatosi oggi in diffidenza; la comprensione della complessità della vita in comune, ridottasi a un garbuglio inestricabile; la ragione di una cittadinanza repubblicana, surclassata dal ritorno ai tribalismi di quartiere; la sostituzione, al conflitto sociale, come legittima forma di rivendicazione di status, diritti e risorse, di una vecchia logica in nuova salsa, quella della predatorietà. Questo e altro sta dietro (e dentro) la quenelle, non essendo però essa la sola manifestazione di un disagio che viene dal basso ma il prodotto della paralisi dell’intera società, francese ed europea, cristallizzata sempre di più nelle sue incolmabili differenze sociali. Tralasciamo i sociologismi pietistici e accusatori ma cerchiamo almeno di vedere le strozzature che, di passo in passo, emergono con sempre maggiore frequenza. Per inciso, il personaggio politico Dieudonné che, sotto le mentite spoglie della satira, recupera, nobilitandoli per il suo pubblico, tutti i luoghi comuni più triti dell’antisemitismo – partendo dal vecchio incipit che più o meno suona così: “io non sono antisemita, semmai sono gli ebrei ad avercela con me” ( e ce l’hanno con me perché loro sono quel “sistema” che io dico di contestare) – , costituisce da adesso un problema europeo, che non può essere relegato – e consegnato – ai francesi, benché sia anche uno specifico frutto della specificità delle difficoltà che quel paese sta vivendo. Poiché ci segnala uno smottamento, che ha epigoni, per così dire, anche in altri parti del Continente. L’antisionismo, se può stare certi, costituirà, anche laddove non abbia trovato ancora tanta “nobiltà” ed eco di espressione, la piattaforma per dare nuove lustro ad antichi spettri. Dieudonné, c’est ne pas qu’un debut.
Claudio Vercelli
(5 gennaio 2014)