Rito del ricordo, condivisione del passato

Esce oggi in libreria il nuovo saggio della scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal “Contro il Giorno della Memoria. Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato”, add editore.
Ne anticipiamo per il lettore uno stralcio dall’introduzione dell’autrice.

“Qualche parola in prima persona. La Shoah è la mia ossessione. So che questo è nulla al confronto con la Shoah che in tanti hanno attraversato, la Shoah vera che è stata morte e prima ancora soprusi, sofferenze, smarrimento terribile, un senso inaudito di ingiustizia e violenza. La mia Shoah è solo un’ossessione, un pensiero che non è fisso, anzi, si sposta qua e là, cade in punti imprevedibili della mia vita, diventa sgomento e rabbia, il più delle volte tutte e due insieme. Sono nata nel 1960. Una volta questa data mi sembrava lontana anni luce dall’ultima guerra, ma con il passare del tempo le stagioni si contraggono, le lontananze diventano una matassa scura, inestricabile. Se provo a immaginare gli anni trascorsi, a dare loro una qualche figura di spazio, mi rendo conto di essere venuta al mondo quando tutto era appena finito. Più mi spingo avanti negli anni e più ho la sensazione di questa terribile vicinanza, che in fondo spiega molte cose della mia vita passata e presente. Sono nata, insomma, in quell’immediato dopoguerra che era fatto di ruggente ritorno alla vita – erano gli anni in cui prendeva corpo un boom economico quale non avremmo mai più conosciuto, fatto non solo di crescita e ricchezza, ma soprattutto di slancio, possibilità di futuro e irreversibilità del presente. Come a dire: non ci ritroveremo mai più in un mondo come quello che ci siamo lasciati alle spalle! Ma quell’immediato dopoguerra era anche una stagione in cui ciò che s’era passato non era neanche ancora un ricordo. Piuttosto, una presenza scura, un’ombra da non nominare, l’incubo che segnava le notti, uno spettro da scacciar via. Altro che celebrazione della memoria: in quella stagione il sogno era dimenticare. Abbandonare i ricordi da qualche parte, magari in fondo a un pozzo, dentro un buco di terra. La venerazione della memoria, sentita come un dovere morale e civile, come un valore assoluto perché ricordare fa bene, è bene, non esisteva ancora. Anzi. Per sopravvivere, vivere e trasmettere la vita a noi che eravamo arrivati subito dopo la guerra e le persecuzioni e Auschwitz, l’unica strada sembrava essere quella di dimenticare – in realtà fingere di dimenticare –: voltare le spalle al passato, lasciarlo muto. E poi, chi ha detto che la memoria debba articolarsi in parole, immagini, materia? Quel passato, per chi l’aveva attraversato e ne era sopravvissuto, restava indimenticabile, nel senso peggiore della parola. Non se ne andava benché si desiderasse ardentemente dimenticarlo. In fondo è un bisogno naturale della vita, quello di scordarsi il male, di starne lontani anche se è ormai soltanto un ricordo, un pezzo di passato. Le due generazioni venute al mondo prima di me, superstiti della guerra e delle persecuzioni e di Auschwitz, in quegli anni ricordavano loro malgrado e a loro modo: nel silenzio. Nella paura. Negli incubi di notte. E di giorno, talvolta. Senza parole. Quando io avevo un anno – ero paffuta, accudita e vestita con una cura meravigliosa, ero il ritratto del boom economico, della serenità, di un benessere che cresceva a vista d’occhio – è stato il processo Eichmann, tenutosi a Gerusalemme nel 1961, a portare alla ribalta del mondo le parole del ricordo, la voce rotta dei testimoni. A sancire il dovere della memoria, la necessità di raccontare, ricordare, trasmettere quel passato. Oggi sembra impossibile ma, sino a quel momento, di sterminio degli ebrei non si parlava affatto. Chi l’aveva visto da vicino taceva, gli altri non sapevano, non potevano immaginare. Il processo Eichmann è stata una svolta fondamentale nella comune percezione, nella «cognizione» di quel che era stato. Prima di allora, ricordare non sembrava necessario, solo doloroso. E neanche utile, in fondo. Ma soprattutto inefficace. Questo è un dubbio che ha tormentato e tormenta anche me. È un’incertezza scomoda e politicamente molto scorretta, in questo presente che celebra la memoria come un imperativo etico, come un’indiscutibile terapia di civiltà. Che fa del ricordo un bene di per sé, a prescindere dall’oggetto della memoria. La Shoah è la mia ossessione, vivo dentro quella memoria, ne impasto i miei sentimenti. Ma so bene che la mia sofferenza, la frustrazione e la rabbia che accompagnano il ricordo di quel tempo non hanno nulla a che vedere con l’esperienza di chi l’ha attraversata. Di chi è sopravvissuto e dei tanti di più che ne sono rimasti sommersi. So bene, io, di stare dalla parte opposta del precipizio, al di là di un confine che sento terribilmente vicino – negli anni del mio tempo, nell’intimità quotidiana con quel dolore, nella condivisione – eppure invalicabile. Non c’è modo di immedesimarsi né spartire l’esperienza della Shoah, che è incomunicabile. Ricordare non serve a niente, non sposta di un millimetro quella distanza. Lo so bene, ne sono certa: la mia postazione sul filo di quell’abisso che separa chi c’era da chi è venuto dopo me lo dice. Non ho alcuna fiducia né speranza che ricordare e conoscere aiuti ad avvicinare, a sentire quello che hanno sentito i so- pravvissuti. Non ho alcuna illusione in proposito. La Shoah non è condivisibile, così come non lo è nessuna esperienza traumatica – di morte, dolore, tortura. Sulla tortura ha scritto Jorge Semprún, mirabilmente. La mia ossessione, dunque, è fatta di un impasto strano, molesto. Vicinanza e consapevolezza di essere immensamente lontana. Silenzio e parole che sono per me l’unico modo per scendere a patti con il dolore, la frustrazione, la rabbia. No, a patti no. Neanche risolvere. Soltanto articolare. È il mio vissuto, la pasta di cui sono fatti i miei giorni. Una vita al riparo dal passato, beatamente partecipe del migliore dopoguerra, serenamente ancorata alla stabilità: economica, affettiva, civile. La mia vita, sino a ora, non ha conosciuto traumi storici. È venuta subito dopo: se li porta addosso, ma come traccia e non come esperienza. Una traccia profonda, però. Segnata sostanzialmente dalla consapevolezza di quella distanza insormontabile che mi separa dalla generazione appena precedente: un pugno d’anni che fanno la differenza. Loro c’erano. Io no e per questo, oltre a riconoscere il privilegio di essere nata quando tutto era già finito, so per certo che non potrò mai condividere l’esperienza di chi c’era. Non certo con il ricordo. Infatti la mia ossessione della Shoah non ha nulla a che vedere con il ricordo. Anzi: ne fa a meno. A una certa età ho incominciato ad ascoltare i racconti e la Shoah è diventata un insieme di parole. Ma a quell’epoca la traccia era già segnata, la sostanza della mia esperienza già composta: non c’era bisogno della parola per darle corpo. Non ho mai sentito il bisogno di ricordare. Che qualcuno ricordasse per me. Il ricordo per me era e continua a essere una presenza viva, terribilmente ingombrante. Per farmi un poco di spazio, scaricare il peso di quella presenza, nel 2008 ho scritto un romanzo che s’intitola Conta le stelle, se puoi. È la storia di una famiglia ebraica molto «normale», che prende le mosse nella seconda metà dell’Ottocento con un carretto di stracci e un ragazzo intraprendente, e giunge fino al secondo decennio del nuovo millennio. Nella mia storia Mussolini muore per un colpo secco nel 1924, Hitler non c’è e non c’è nemmeno la Shoah. Non c’è la guerra, lo Stato d’Israele nasce nel 1938, senza l’intoppo del conflitto mondiale e senza «bisogno» dello sterminio. Ovviamente non ho scritto questo libro per negare la Shoah ma per dimostrare che quella storia non era necessaria, come invece si è portati a credere, pur deplorandola. La Shoah poteva anche non accadere e non doveva accadere: invece la si sente come un evento ineluttabile. È stato, invece, un inaudito incidente della storia. I miei avi e il popolo ebraico meritavano una storia diversa, non questa. Nessuno li ha messi al mondo perché finissero nelle camere a gas: la Shoah non è un destino precostituito. Io ho provato a restituire loro ciò cui avevano diritto, nell’unico modo che mi era disponibile: con la finzione narrativa. Restituirlo a loro, certo. Ma soprattutto a me stessa. Credevo di avere chiuso i conti con la Shoah – soltanto per quanto riguarda la scrittura, ovviamente. Ma non era così. E sono dovuta tornare alla trama di treni che andavano pieni e tornavano vuoti su e giù per l’Europa. Alla cenere che cadeva come una grigia e lenta neve e da allora in fondo continua a cadere, non smette più. La Shoah, dunque, per me non è memoria. Non torna a me nella celebrazione del ricordo; è piuttosto una presenza costante di cui farei volentieri a meno perché mi dice che malgrado la serenità, malgrado il benessere che sino a ora ho conosciuto, malgrado il fatto inedito nella storia di aver vissuto sino a ora senza dover stare dentro una guerra, c’è un’ombra greve che mi pesa addosso e che mi ha segnato facendo di me, così come di chi mi ha messo al mondo, una sopravvissuta. Da alcuni anni a questa parte, però, oltre che con la mia ossessione devo fare i conti anche con il Giorno della Memoria – che d’ora in poi per comodità chiamerò con un acronimo, GdM, un modo come un altro per esorcizzarlo, almeno in parte. Questa ricorrenza è entrata nel calendario civile non come festività ma come presunto momento di riflessione. Anzi no: di rievocazione. Serve a ricordare quello che è successo. Non ci dice che cosa fare, una volta ottenuto quel ricordo. (…)

Elena Loewenthal
(tratto da “Contro il Giorno della Memoria. Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato”, add editore)

(16 gennaio 2014)