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A proposito dell’uso di alcune categorie della politica nel dibattito interno alla comunità ebraica, vorrei spendere qualche parola sull’uso e sull’abuso dei concetti di fascismo e squadrismo. In entrambi i casi si tratta di forme di sopruso, di imposizione violenta di una volontà politica per allontanare o per sopprimere opinioni e/o comportamenti che non vengono ritenuti opportuni da chi li contesta. Ma in entrambi i casi questi due concetti hanno per la storia dell’ebraismo italiano un significato profondo e doloroso che vale la pena di ricordare qui, mettendolo in relazione a quello che è l’elemento fondamentale che dà forza e sostanza a fascismo e squadrismo: l’esistenza cioè di uno Stato che supporta con finanziamenti e con l’azione politica questo tipo di dinamica. Durante il ventennio la gran parte dei Consigli delle comunità ebraiche venne fascistizzata, e nonostante ciò nacque una frangia estrema – gli squadristi de “La nostra bandiera” – che effettivamente compirono azioni violente e agevolate dallo Stato come l’assalto alla redazione del settimanale sionista “Israel” a Firenze. La storia poi ci racconta (e il Giorno della Memoria ci serve anche a questo) che in una situazione di fascismo reale, chi decide “chi è ebreo” non sono gli ebrei stessi, ma chi li vuole perseguitare ed eliminare. Ebrei fascistissimi come il bandierista Ettore Ovazza, o antifascisti come Leone Ginzburg, hanno fatto nella sostanza la stessa tragica fine, e noi oggi ne onoriamo comunque la memoria. Per la rumorosa gazzarra organizzata martedì sera nei locali della Comunità ebraica di Roma per contestare i relatori della presentazione di un libro, io tenderei a non utilizzare le categorie di fascismo e di squadrismo: non mi pare corretto e non mi sembra neppure rispettoso nei confronti della storia dell’ebraismo italiano. Naturalmente, nella mia qualità di co-fondatore e membro attivo di JCall Italia, non posso che esprimere la mia solidarietà a chi ha semplicemente organizzato la presentazione di un libro che è stata oggettivamente impedita con urla, schiamazzi e minacce di vario tipo. Tuttavia trovo che qui in gioco ci siano altre dinamiche. Tralasciamo le ostilità personali, che lasciano il tempo che trovano, ma che sono comunque significative in una comunità piccola come quella ebraica italiana. Qui siamo di fronte all’emergere di una esplicita identità politica di un gruppo piuttosto consistente di ebrei, per lo più di Roma (la base politica e sociale dell’attuale presidenza), che si fonda da molti decenni su una difesa ad oltranza della sicurezza di Israele e del suo futuro come Stato ebraico. Una visione del tutto legittima, che tuttavia nello specifico della realtà romana trova delle forme di espressione vagamente paradossali. Mentre nella stessa Israele il dibattito politico è quanto di più articolato si possa immaginare, con posizioni che spaziano nelle più diverse direzioni e che sono tutte considerate legittime come componenti fondamentali della democrazia del paese (che è il suo vero valore aggiunto in un Medioriente cosparso di dittature e regni più o meno oppressivi), a Roma queste stesse forme di democrazia vengono duramente contestate, come nel caso di martedì scorso o come da settimane si legge nei vari social network che ospitano infiniti e inconcludenti dibattiti. Per dirla in maniera più esplicita: la linea “due popoli due Stati” proposta fra gli altri da JCall, è né più né meno quella perseguita (almeno di principio) dall’attuale governo israeliano nelle sue trattative con l’Autorità palestinese, sotto l’egida della diplomazia statunitense e dell’inutilissimo “Quartetto”. Nulla di scandaloso, quindi, ma pare che a Roma questa posizione trovi qualche difficoltà a essere espressa in pubblico senza venire sommersa da insulti. La questione da porsi in questo contesto a me pare sia questa: su cosa si fonda il discorso politico che sembra andare per la maggiore nella comunità ebraica romana, e che nella sostanza è senza rispondenza nel main stream del dibattito politico sul Medioriente? Io credo sia giusto dedicare una riflessione all’argomento, poiché questo ha a che fare con una certa tendenza all’isolamento che è parte della storia dell’ebraismo italiano nei secoli e che oggi sembra fare nuovamente capolino. Naturalmente in gioco ci sono anche assetti politici locali, retoriche utilizzate per mantenere una presa sulla cosiddetta “piazza” di Roma, ma a me pare che sia sbagliata l’idea di semplificare l’analisi della situazione rispolverando a sproposito le categorie di fascismo e squadrismo. Abbiamo la responsabilità di connettere l’ebraismo romano e quello italiano alle dinamiche – ricche di vita, rinnovamenti culturali e religiosi, intense esperienze comunitarie e di confronto – che caratterizzano il mondo ebraico in Europa, negli Stati Uniti e in Israele. In questa dimensione naturalmente noi italiani siamo una piccola minoranza, per cui diventano al limite irrilevanti le nostre posizioni politiche sull’assetto del Medioriente. Ma dalla nostra parte abbiamo una ricchissima storia bimillenaria, e comunità ancora vivaci e attive come la consistente comunità di Roma, o come le più piccole, ma attivissime comunità diffuse al Centro e al Nord.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(17 gennaio 2014)