Parlare del dopo
“Non avrei mai pensato di vedere Moni Ovadia recitare in un film così sionista!” è stato il mio primo commento uscendo dalla visione di “Anita B” di Roberto Faenza. Una battuta a caldo non troppo meditata e ovviamente non da prendere troppo sul serio: il film in effetti non parla di sionismo o di Israele, ma piuttosto del sogno di Israele che potevano avere nel 1945 e 1946 gli ebrei sopravvissuti alla Shoah; e, al di là delle battute, non ho motivi per supporre che Moni Ovadia, per quanto sia aspramente critico verso l’Israele di oggi, non condivida il desiderio di far comprendere quanto fosse luminoso quel sogno. Il film mi è parso a tratti un po’ troppo didascalico, con qualche passaggio un po’ forzato (per esempio con il salto decisamente brusco da un’identità ebraica tenuta rigorosamente nascosta a una orgogliosamente esibita) e un paio di battute sulla necessità di una convivenza pacifica tra ebrei e arabi che suonano più come omaggio al polically correct che come reale espressione dei sentimenti dei protagonisti. Però nell’Italia di oggi, in cui si parla molto di Shoah, a proposito e a sproposito, ma quasi mai ci si occupa del “dopo” – come se con l’apertura dei lager e la fine dello sterminio i problemi per gli ebrei fossero cessati di colpo in ogni parte del mondo tranne che in Medio Oriente dove loro stessi se li sono andati a cercare – il film ha l’indubbio merito di far capire come il “dopo” per gli ebrei scampati alla Shoah sia stato spesso doloroso e traumatico, fatto di silenzi imposti, di difficoltà, di incomprensioni, e come per molti di loro sia stato logico e naturale arrivare alla conclusione che per gli ebrei in Europa non ci fosse più posto e che un’autentica vita ebraica avrebbe potuto rinascere solo in Eretz Israel. Non so quale impatto avrà il film, ma credo comunque che una maggiore attenzione al “dopo”, nel dibattito pubblico e nelle scuole, potrebbe essere molto utile non solo per la memoria della Shoah e non solo per gli ebrei: le tragedie, le persecuzioni, i genocidi non cessano da un giorno all’altro, ma lasciano strascichi con cui bisogna imparare a fare i conti.
Anna Segre, insegnante
(24 gennaio 2014)