Un futuro migliore
Nell’approccio storico, una certa distanza temporale dagli avvenimenti è spesso auspicata per una più lucida analisi a 180 gradi. Questo dovrebbe permettere che con il trascorrere di anni e secoli, non solo negli storici, ma anche nell’uomo e nella società in cui egli è immerso, si giunga sempre a una maggiore comprensione e consapevolezza del passato e dei suoi sviamenti e si cerchi con questi presupposti di affrontare e di riservarci un futuro migliore.
In parte il concetto non è privo di riscontri e di verità, al giorno d’oggi, almeno in Occidente, a nessuno è negata la possibilità e i mezzi per informarsi, studiare, leggere, così da guardare e analizzare la storia dell’umanità, in special modo con intenti pedagogici. E la nostra sensibilità e le nostre paure contemporanee derivano da questa autopsia, su questa prospettiva siamo continuamente in guardia per avvisare in tempo aberrazioni già intravviste nel passato o prevederne di nuove o analoghe.
Eppure quando si affronta la memoria della Shoah si percepisce la sensazione, in molti, che si tratti di un fenomeno circoscritto, esclusivamente ebraico, che altri non riguarda. Viene semmai colta l’occasione specie negli ultimi tempi per sminuire, banalizzare, se non negare del tutto. Relegando la Shoah a un periodo lontano e superato della storia, restringendola alla sola responsabilità della Germania nazista o riducendone la portata come strumento della “propaganda imperialista”, comparandola con altri genocidi o associandola con provocazione alla questione in Medio Oriente (non è raro sentire la triste frase ripetuta con malignità e idiozia “le vittime si trasformano in carnefici”). Forse è soltanto un atteggiamento che lascia trasparire un senso di colpa censurato da parte dell’uomo post-moderno, o un chiudere gli occhi di fronte a una realtà troppo complessa, affidandosi alla supposta chiarezza data dalle menzogne.
Tralasciare la sua importanza significa però anche respingere la frattura e il peso che la Shoah detiene su un non compiuto progresso umano e sulla modernità, da cui è scaturita in tutti i suoi aspetti, come prodotto e fallimento (Cito Zygmunt Bauman). Togliendo dunque spazio a una plausibile riflessione su come poter raggiungere un grado di civilizzazione che si lasci realmente alle spalle gli orrori di settant’anni fa.
E’ grazie allo sforzo di tenere viva la memoria della Shoah e al suo dibattito nello spazio pubblico (sebbene questo possa apparire sterile o retorico per alcuni) che oggi si ricordano e condannano altri genocidi, o questi vengono nuovamente alle luce, e i paragoni con essa, per quanto sovente inappropriati, dimostrano come la sua immagine sia ancora presente nella memoria collettiva, rappresentando un monito e incentivando nei più desti lo sviluppo di una coscienza forse più empatica, umanistica e anti-totalitaria. Sempre naturalmente che chi tenta di continuo dil minacciare ed estirpare il suo ricordo un giorno non riesca definitivamente nel suo intento: affinché ciò non si realizzi spetta agire non solo agli storici e agli ambienti ebraici, ma soprattutto all’intera collettività.
Raul Hilberg, scrive in The Significance of the Holocaust: “Nel 1941 nessuno era in grado di prevedere la Shoah e questa è la ragione principale delle nostre ansie successive: non osiamo più escludere la possibilità che avvenga l’inimmaginabile”.
Francesco Moises Bassano
(24 gennaio 2014)