…finzioni

Nel linguaggio talmudico, si usa dire che la Torah ‘sporca le mani’: è un testo sacro. Anche la Shoah, con i dovuti distinguo, sporca le mani, ma non perché sia un testo sacro, anche se sacra ne è diventata per noi la memoria. E Roberto Faenza non poteva non sapere che, rivisitando filmicamente un romanzo sulla Shoah (“Quanta stella c’è nel cielo”, di Edith Bruck) accettava di correre un bel rischio, perché rappresentare la devastazione assoluta dell’umanità, nel suo accadere quanto nelle sue conseguenze, è una trappola insidiosa che si apre davanti all’artista. La Shoah, tragedia spaventosa e vera, accetta controvoglia il confronto con la finzione, specie quando questa cerca di trasformare l’orrore e le sue conseguenze in una favola rosa, ottimista e aperta alla speranza. È la stessa trappola in cui è caduto a suo tempo Benigni con la benintenzionata edulcorazione de “La vita è bella”. In modo non molto dissimile, il film Anita B. cade nel dolciastro, nella retorica dal tono inverosimile di una recitazione spesso artificiosa, di un Purim anacronistico, di falafel fuori luogo, di un medico abortista che si rivela angelo salvatore, di una sionista virile con la pistola al fianco e di miracolistiche partenze per Israele. L’incredibile di giornate assolate e panorami idilliaci, quando tutto, sullo sfondo della Shoah, appare, al di qua dello schermo, eternamente e irrimediabilmente grigio scuro. Il film è l’insieme di frammenti che, presi a uno a uno, a piccole gocce, sono tutti possibili, magari anche veri nella biografia di qualche raro e fortunato scampato, ma mai possibilmente plausibili come condensato metaforico di un destino particolare o, peggio ancora, collettivo; perché la finzione, ogni finzione, è sempre metafora di una visione generale della vita. Ma la Shoah non accetta l’ottimismo simbolico della finzione, e nel sovrastarlo con la sua irreparabile disperazione ne rivela di continuo la contraddizione, la retorica, l’assurdo tentativo di compensare l’incompensabile, di salvare l’insalvabile. In questo, che spiace definire un triste e ingenuo fallimento, cade malamente anche il personaggio rappresentato da Moni Ovadia, che nel film è imbarazzante macchietta di se stesso, di buon effetto forse al cabaret, ma non in quella che chiede di essere una rappresentazione di quel disperato reale. Persino il linguaggio ha momenti di enfasi che la storia stessa non sopporta, e mette spesso a disagio, ti fa scappare il risolino impacciato che non ti appartiene, che non si attaglia alla situazione sulla scena. E tutto ciò mostra una volta di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la Shoah, anche per chi ne sia uscito vivo, non ha via di scampo, non offre possibilità di salvezza. La sua edulcorazione, lo sguardo aperto su un futuro in cui si sente il cinguettio degli uccellini, pur con tutte le migliori intenzioni, finisce per rendere un buon servizio a coloro a cui piace pensare che la Shoah sia un’invenzione, un artificio della fantasia ben riprodotto e rielaborato dall’industria del falso, che funziona alla perfezione proprio nella rosea finzione cinematografica, quella con il finale all’americana e la telecamera puntata retoricamente verso la strada serpeggiante che si snoda radiosa perdendosi all’orizzonte. Altro sono i contesti storici, quelli provati e attendibili del documento e della realtà. Forse è meglio attenersi alla storia o, tutt’al più, alle storie documentate e vere, perché un sopravvissuto può anche averli vissuti certi momenti di quella storia, ma nulla che sia seguito alla Shoah potrà mai essere rappresentato credibilmente, nella finzione, nella gamma del rosa, salvo risultare fastidiosamente stonato. Di fronte all’incompensabile squilibrio fra l’inferno e la fuga da quell’inferno, l’unica via umilmente sicura per la finzione narrativa o filmica è il pudore del silenzio.

Dario Calimani, anglista

(28 gennaio 2014)