“Io voglio, io devo capire”
Forse davvero solo una donna forte, indipendente, dalla lunga storia di impegno e militanza artistica e intellettuale come Margarethe Von Trotta poteva assumersi il rischio, e l’eventuale onore, di riportare all’attenzione del mondo con tanta forza e un pizzico di impudenza un’altra donna dal carattere fortissimo e dallo spirito libero come Hannah Arendt. Non è certo un caso che molti dei suoi personaggi corrispondano a queste caratteristiche: sia che si tratti dei film più legati all’attualità e alla politica, sia che si faccia riferimento ai personaggi femminili apparentemente meno impegnati, le donne che ritrae non sono mai banali, non sono mai scontate nei pensieri, nei gesti. E certamente non sono donne deboli. Vogliono capire. E quel “voglio capire” che pronuncia Hannah Arendt con grande forza nel film descrive perfettamente la sua filmografia, e lei stessa. Fra i principali registi tedeschi, Margarethe Von Trotta è stata prima attrice, per poi diventare una delle anime del Nuovo Cinema Tedesco negli anni ’70 e ’80, insieme a Werner Herzog e a Reiner Werner Fassbinder. Un cinema impegnato politicamente, il suo, che da sempre alterna film dedicati all’attualità politica a ritratti di grandi personaggi femminili, spesso unendo le due cose. È talmente importante nel panorama intellettuale tedesco che prima di intervistarla è d’obbligo documentarsi seriamente, ed essere pronti a pesare le parole. Ma per approfondire i suoi percorsi, le storie e la Storia che narra non sono certo sufficienti quei pochissimi giorni trascorsi fra la richiesta di intervistarla e l’appuntamento ottenuto. Sorprendentemente pochi, anche considerando l’attenzione che sta attirando su di lei il suo ultimo lavoro, così come sorprendente è la disponibilità di una donna che per prima cosa ammette di aver pensato “oh, no, un’altra intervista…”, ma che si presta a raccontare i percorsi che l’hanno portata a occuparsi di Hannah Arendt. La foga e la passione con cui racconta delle lotte intraprese per riuscire a ottenere i finanziamenti – ha spiegato ridendo che “è stato davvero molto difficile, sono solo una povera regista europea” – alterano a volte il suo italiano impeccabile, vagamente antiquato, che nella foga lascia trasparire con maggiore evidenza il tedesco, sia nel vocabolario che nell’accento. Un italiano che a volte proprio nell’uso improprio di alcune parole inventa termini ancora più efficaci, come quando citando un filmato originale del processo Eichmann parla di uno dei testimoni che si sente male, proprio mentre sta “memorando” la sua storia, e “svanisce”. Una storia impossibile da raccontare, così come è stato per lei impensabile cercare un attore che impersonasse Adolf Eichmann.
Chi avrebbe potuto interpretare Eichmann?
No, ho saputo da subito che non era possibile, ho di proposito escluso immediatamente il ricorso a un attore. Non sarebbe stato giusto. Ho scelto di utilizzare i filmati originali, anche per evitare che l’attenzione del pubblico si concentrasse sulla bravura dell’attore. Per me è importantissimo che chi guarda il film veda il vero Eichmann, l’impersonificazione del male, che invece era così normale, così mediocre, così mostruosamente ordinario.
Ha studiato i filmati del processo?
Il processo Eichmann è durato otto mesi, sono circa 270 ore di riprese, è impossibile guardarle tutte. Non solo per il tempo necessario, è una visione insostenibile. In questo la collaborazione con lo Yad Vashem è stata fondamentale, e avevo anche visto “The Specialist”, il film del regista israeliano Eyal Sivan che ha fatto un lavoro enorme sui filmati originali. E ho studiato, ho studiato tanto.
Non deve essere stato facile prepararsi per questo ultimo film.
La cultura ebraica per me non è una novità, me ne sono già occupata, soprattutto per Rosenstrasse… e ho pianto per delle giornate intere. Per quanto già si sappia della Shoah, quando ci si mette in testa di raccontare quel periodo, quei fatti, e si cerca davvero di capire, è tremendo. Vedere documentari, cercare di sapere, di capire, leggere i grandi scrittori, Elie Wiesel, Primo Levi… le storie che raccontano sono terribili, terribili.
So che l’idea di fare un film su Hannah Arendt non l’ha immediatamente entusiasmata.
Era il 2002, avevo appena finito Rosenstrasse, e un amico mi ha detto che a quel punto dovevo assolutamente fare un film sulla Arendt. La mia prima reazione è stata totalmente negativa, ho pensato “è impossibile, perché devo farlo? Come posso fare un film su una donna che pensa?”
Cosa le ha fatto cambiare idea?
Anche se non volevo, continuavo a pensarci, e a un certo punto ne ho parlato a Pamela Katz, la mia sceneggiatrice. Pam è un’ebrea americana, abbiamo lavorato tanto insieme, ci conosciamo molto bene, e dal momento in cui le ho detto dell’idea mi sono trovata come in un sandwich, fra il mio amico e lei. Ma continuava a sembrarmi troppo: troppo difficile, troppo intellettuale, troppo arrogante… ma ho avuto tempo di pensarci, ci sono voluti otto anni per riuscire a raccogliere abbastanza finanziamenti e iniziare le riprese!
La vita di Hannah Arendt è stata piena di episodi molto forti, che forse sarebbero stati anche più facili da trasporre in un film, ma avete scelto gli anni in cui segue il processo Eichmann e scrive “La banalità del male”. Perché?
Sì, ha avuto enormi difficoltà in tutta la sua vita, e ci sono altre parti della sua storia che varrebbe davvero la pena di raccontare, ma io volevo affondare nella profondità del suo pensiero. Mi interessava provare a guardare la Storia, quella storia, attraverso i suoi occhi.
La Hannah Arendt del film è forse diversa da come la si immagina, non la preoccupa questo?
Era un personaggio vitale e appassionato, e basta leggere le tante lettere che ha scritto per capirlo. Nelle lettere a suo marito, a Martin Heidegger – che ha tentato per lungo tempo di comprendere – nelle lettere a Kurt Blumenfeld, il suo amico israeliano che dopo la pubblicazione de “La banalità del male” è talmente ferito da non volerle più parlare, viene fuori il suo carattere. Ho trovato Lotte Kohler, la sua assistente, che nel film era giovanissima, e ho parlato anche con altri che l’hanno conosciuta bene. Era simpatica, una persona calorosa, generosa nelle amicizie. Non era solo una intellettuale polemica. E ho voluto che fosse Barbara Sukowa a interpretarla, perché sapevo che solo lei sarebbe riuscita. Senza di lei e senza Pam Katz non avrei potuto fare il film.
Il suo film ha risvegliato le polemiche su “La banalità del male”, era quello che voleva?
Non guardo mai indietro, e certamente prima di fare questo film non avevo le idee chiare. So che in Germania, dopo l’uscita del film, i libri di Hannah Arendt sono stati di nuovo venduti molto. Era successo anche con Rosa Luxemburg, e se questo serve a capire meglio la Arendt io sono certamente molto contenta. Sono totalmente concorde con quello che dice lei. E anche io voglio capire. Non posso capire sempre, non tutto, ma voglio capire, devo. Capire è una mia responsabilità.
Ada Treves, da Pagine Ebraiche febbraio 2014
(30 gennaio 2014)