Memoria e ricordo

vercelliDomani ricorre il Giorno del ricordo, istituto anch’esso, così come il Giorno della memoria, con un’apposita legge, in quest’ultimo caso approvata dal Parlamento nel marzo del 2004. Il dispositivo completo delle norme contenutevi, articolato in sette articoli, rinvia al fatto che «la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e di rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Benché approvata dalla Camera e dal Senato con il voto di una larghissima maggioranza di parlamentari, la ricorrenza fatica ancora adesso ad affermarsi come patrimonio della coscienza civile del nostro Paese. I motivi di tale ritardo sono molteplici e non tutti ascrivibili alla malafede o all’«ignoranza», come troppo spesso si recita, in questo come in tanti altri casi, dinanzi a quelle che invece sono rimozioni, dinieghi o ad un più generico ma pervicace scetticismo. Rimane il fatto, a riscontro di ciò, che non pochi hanno voluto leggere, nell’istituzione di una giornata dedicata alla storia e alla commemorazione delle vicissitudini incorse ai nostri connazionali nelle terre d’oltre Adriatico, una sorta di compensazione e di bilanciamento nei confronti dell’attenzione dedicata alle catastrofiche vicende alle quali il Giorno della memoria fa invece riferimento. Il tutto inteso come espressione e manifestazione di una sorta di lottizzazione dei trascorsi storici, per la quale ad ogni parte politica e ideologica andrebbe riconosciuto una specie di diritto alla rivendicazione di un passato vittimistico, da esibire come una sorta di tagliando per il risarcimento nel presente. Così è declinata da certuni la cosiddetta «pacificazione» culturale e ideologica, traducendosi in un ricatto perenne, dove alla parola Lager viene replicato Gulag (e viceversa), in una banalizzazione totale, dove i morti dell’universo concentrazionario e dell’arcipelago detentivo sovietico spariscono sotto la coltre della rabbiosa contrapposizione.
Questo scontro frontale, che trova un terreno fertile nei revisionismi di senso comune che, passo dopo passo, possono tradursi in negazionismi (nel caso degli eventi del Giorno del Ricordo si può parlare del rifiuto di cogliere la complessità dei processi e dei percorsi storici che portarono agli omicidi e all’esodo di massa, rubricandoli al mero prodotto di un legittimo esercizio di reazione antifascista), o comunque in “contorsionismi”, è quanto di più ci allontana dalla comprensione della storia e, per così dire, della memoria delle offese subite. La questione del rapporto tra il 27 gennaio e il 10 febbraio non sta nella parificabilità (cosa vorrebbe poi dire, concretamente?) di vicende storiche e di tragedie umane che mantengono la loro autonoma specificità, né in una caramellosa ideologia dei diritti umani che, se intesa in astratto, rischia di rimanere inoperosamente inerte, segno più di una sconfitta dell’intelligenza che non di una presa di coscienza nell’azione politica. Non di meno, mai e poi mai il ricordo del passato può tradursi in una concezione aritmetica, come la definisce efficacemente Georges Bensoussan, dove il «secolo dei genocidi» industriali si misura ad ampie spanne con il metro esclusivo del «ne sono morti di più dei miei che non dei tuoi, ergo io ho più diritti da rivendicare di te».
Diciamo e ribadiamo questo perché invece l’equivoco di fondo è invece spesso focalizzato su tale modo di concepire le cose trascorse, tirando le somme da un punto di vista quantitativo («ne hanno ammazzati di più “loro”, quindi sono peggiori») per poi condonarsi, in un esercizio di autoindulgenza pressoché senza termine, responsabilità trascorse e potenziali implicazioni in divenire. In questo modo non solo non si fa storia, né si rende legittimo riconoscimento alle vittime, ma si piega, a volte quasi oscenamente, frammenti di ciò che concretamente fu per un esercizio di pura contingenza polemica. Che tuttavia si rinnova ossessivamente, occupando intere pagine di giornali, serate di talk show, chiacchiere da bar come anche, volte, simposi che si vorrebbero di alto lignaggio culturale. Non di meno, ed è un altro aspetto perverso della questione che stiamo raccontando, questo modo di intendere il rapporto con il passato innesca e rinnova quella che è stata definita come la «concorrenza delle vittime», già efficacemente segnalata anni addietro da Jean-Michel Chaumont in un bel saggio uscito in Francia e mai tradotto in Italia.
Poiché tutti hanno una qualche memoria di dolore da rivendicare, e posto che la sua rappresentazione pubblica può ingenerare una qualche visibilità sociale (e anche un’insperata capacità di ottenere una qualsivoglia forma di risarcimento, fosse anche solo simbolica), la tentazione di autorappresentarsi come i titolari di un’offesa assoluta innesca un perverso fenomeno di rincorsa verso il paragone – e spesso l’assimilazione – alle peggiori tragedie che ci consegna il Novecento. In tale modo, poiché tutto è Auschwitz, Auschwitz rischia di diventare nulla, in quanto presente sempre e ovunque, ripetuto ossessivamente, reiterato in ogni gesto quotidiano, condensato anche in un ceffone . Un paradosso, va da sé, ma che è ben presente nelle infinite pieghe della comunicazione pubblica, anche se a volte basata sui migliori presupposti. L’altra faccia della negazione, infatti, è quel misto di sacralizzazione e banalizzazione, che fa di un evento straordinariamente potente, una specie di totem al quale rinviare, come metro di paragone, per ogni fatto contingente. Lamentando, inoltre, secondo una retorica degli «olocausti negati» o sconosciuti, un presunto diritto ad essere considerati, per la parte propria, del pari alle vittime delle peggiori catastrofi.
Un discorso, quest’ultimo, che è pieno di incongruenze – non solo storiche ma anche etiche – e che tuttavia diventa difficile da fare, poiché ingenera la sensazione, in una parte degli interlocutori, di essere animati da insensibilità o, peggio ancora, dall’intenzione di stabilire e mantenere una sorta di perverso primato della sofferenza. Accusa, quest’ultima, che non solo i negazionisti e gli antisemiti ma anche una parte delle società civili muovono all’ebraismo, imputandogli una vocazione al monopolio del dolore. Su questa strada, se dovesse essere ancora percorsa, il deragliamento della memoria diverrebbe purtroppo un effetto perverso del trascorre del tempo. Raccontare la storia, ovvero ricostruirla, comprenderla, ragionarla e comunicarla non implica il definire gerarchie morali ma il cercare un disegno di significati dentro il quale i tasselli di un complesso mosaico collettivo trovano una loro corrispondenza. Non è la dimensione di ognuno di essi a decretarne la rilevanza ma la sua capacità, per così dire, di relazionarsi agli altri, aiutandoci a spiegarli, a segnalarci la loro imprescindibilità. Impegno tanto più difficile, oggi, dal momento che invece prevalgono spinte particolaristiche, atteggiamenti di chiusura, dove la sofferenza tacita le vittime ma, ancora di più, rischia di parlare linguaggi vuoti, ossessionati, inutilmente prescrittivi.
Il recupero della storia di ciò che avvenne in anni drammatici, tra il 1943 e il 1956, nelle terre del Nord-est del nostro Paese, deve allora accordarsi ad una più ampia riconsiderazione, già in parte realizzata dagli storici ma in sé non ancora sufficiente tra la pubblica opinione, della parte che l’Italia svolse nella Seconda guerra mondiale, un conflitto che concorse a scatenare e in cui ha avuto non poche responsabilità. Senza peraltro tacitarsi sui torti subiti dalle sue popolazioni. Non a caso la legge istitutiva del Giorno del ricordo, dopo avere elencato i soprusi subiti dagli italiani, rinvia alla «complessa vicenda del confine orientale». Non è uno sforzo di attenuare la violenza di cui furono destinatari. Semmai è la volontà di ricondurla all’interno della cornice dell’immane tragedia che le potenze dell’Asse avevano scatenato nel Continente così come agli appetiti che la consunzione del dominio nazifascista scatenò in campo jugoslavo e nel costituendo blocco dell’Est. Gli infoibati e gli esuli pagarono in prima persona la sconfitta italiana nella guerra e le logiche spartitorie postbelliche, di cui gli uomini di Tito erano una delle avanguardie chiamate alla loro spietata realizzazione. All’impegno di studio e comprensione che in questi ultimi decenni è derivato anche per ciò che concerne questa pagina di storia non si risponde con un’alzata di spalle. Mi permetto, al riguardo, di rinviare agli esiti del lungimirante lavoro, licenziato già più di una decina d’anni fa, della Commissione mista storico-culturale italo slovena, reperibile anche all’indirizzo www.storicamente.org/commissione_mista.pdf. Se siamo per davvero autentici cittadini di un’Unione europea democratica, abbiamo un obbligo di ricordo. Non per rivalsa ma per garantirci un futuro comune.

Claudio Vercelli

(9 febbraio 2014)