Il racconto difficile
La necessità di qualche riflessione sulla letteratura della e sulla Shoah (come della deportazione) mi deriva dall’essermi impegnato in particolare modo nello studio di essa in questi ultimi anni. Le premesse riguardo alla sua fisionomia sono meno scontate di quanto possa sembrare a un primo impatto se si pensa, come sostiene Grete Weil, che “più il tempo passa più Auschwitz si avvicina”. Non di meno Primo Levi, interrogandosi sulla sua esperienza, ha avuto più volte modo di osservare che “ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo” così come rammenta quel carceriere che gli ricordava che qualunque fosse stata detta dai sopravvissuti, non sarebbero comunque creduti dinanzi all’enormità del crimine. Il quale, in quanto componente dell’abiezione che si consumava nei Lager, era parte stessa di un più generale meccanismo di rimozione anticipatorio, che avrebbe garantito ai carnefici una sorta di impunità morale, prima ancora che penale. Non a caso, ha scritto il politologo Jürgen Habermas, che «da allora un legame di innocenza […] che ci univa si è rotto, un’innocenza alla quale delle tradizioni ignoranti del dubbio avevano attinto la loro autorità e che, in un certo modo, nutriva le continuità storiche. Auschwitz ha modificato le condizioni per una continuità della trama storica della vita”. D’altro canto, c’è chi come Elie Wiesel si è interrogato sulle implicazioni del narrare, laddove questo potrebbe tradire l’essenza e la veridicità dell’esperienza. Non a caso ha avuto modo di affermare: “la letteratura dell’Olocausto? Il termine stesso è un controsenso. Chi non ha vissuto l’accaduto non lo conoscerà mai. E chi l’ha vissuto non lo rivelerà mai”. E ancora: “Auschwitz è la negazione di ogni letteratura, com’è la negazione di tutti i sistemi, tutte le dottrine. Un romanzo su Auschwitz non è un romanzo, oppure non è su Auschwitz”. Il problema dell’’indicibilità’ (non posso parlarne), ma anche il rischio dell’ ‘interdizione’ (non devo parlarne), erano già stati evocati da Ludwig Wittgenstein affermando che: “quanto si può dire, si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Erano poi stati ripresi dalla nota affermazione di Theodor W. Adorno: “scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, in verità oggetto di non poche controversie e molti travisamenti. D’altro canto, a questo genere di obiezioni c’è chi ha rilevato che tacendo, o comunque riconducendo il tutto all’atto del testimoniare solo per chi c’era, si rischierebbe di considerare lo sterminio una catastrofe risolta in sé, consegnando ai nazisti una sorta di vittoria postuma, quello del silenzio annichilito. Che per loro equivale al silenzio tombale della negazione. Da controcanto, alle pur fondate obiezioni, basate sul pudore e sul dolore, a modo suo aveva già risposto a suo tempo Heinrich Himmler, nell’ottobre del 1943, affermando che “[…] abbiamo il dovere morale, abbiamo il dovere verso il nostro stesso popolo di uccidere questo popolo che voleva ucciderci. […] possiamo dire di avere adempiuto questo compito per amore del nostro popolo. E non ne abbiamo sofferto danno nella nostra interiorità, nella nostra anima, nel nostro carattere. Questa è una pagina gloriosa nella nostra storia che non è mai stata scritta né sarà mai più scritta in futuro”. L’intero agire nazista si poneva in contrasto con i corpi ma anche con la loro memoria e, quindi, con la narrazione della vita in quanto tale. Da questo punto di vista è opera di letteratura della e sulla Shoah ciò che si contrappone alla distruzione del significato dell’umano, fatto invece che era consustanziale al nazionalsocialismo. Poiché quest’ultimo ha cancellato il senso della dignità dell’esistenza al di fuori dell’attribuzione di un’appartenenza razziale, introducendo come criteri di relazione tra gli individui la reificazione e l’astrazione assoluta. Tale letteratura va allora intesa a pieno titolo come una “scrittura dell’assedio”, in quanto risposta alle impellenze dettate dai percorsi di distruzione dell’umano, un esercizio di resistenza rispetto all’uniformazione totale che era invece l’obiettivo del nazismo. Diventa poi “atto di testimonianza”, nel senso più pieno, nel momento in cui cerca di ricomporre i frammenti dell’esperienza individuale e trovare dei nessi logici tra persone diverse, trovatesi tuttavia nella medesima, rovinosa, tragica condizione. È inoltre “letteratura impura” (come sottolinea Domenico Scarpa) perché appartiene a una dimensione che rimanda all’inclassificabilità delle sue strutture retoriche e narratologiche. La letteratura della e sulla Shoah è infatti una soluzione mediana tra invenzione letteraria e scrittura documentaria poiché tratta di trasmissione in forma di rappresentazione – quindi attraverso una traslazione simbolica – di un evento storico in totale assenza del medesimo, esauritosi con la scomparsa del regime hitleriano. Inoltre, è punto di intersezione tra memoria e storia, tra soggettività e oggettività, tra corpo (violato) e dispositivo (deumanizzante). La memoria, oggi, più che mai rinvia alla stratificazione del tempo. In essa, infatti, vanno intese anche le generazioni successive, che hanno scritto al riguardo o producono saperi in materia (come già aveva efficacemente rilevato, tra gli altri, Raffaella Di Castro, nel suo “Testimoni del non provato”). I punti critici sono molti ma in particolare rilevano il problema del “linguaggio spezzato”, al contempo di una lingua, quella nazista, sospesa tra tonalità canagliesca e eufemizzazione, e della “Lagersprache”, il linguaggio dei campi, essa stessa neolingua orwelliana; la questione aperta, poiché irrisolvibile, dell’unicità o comunque della singolarità dell’evento (è comparabile e se sì cosa comporta?); il tema portante del trauma: ciò che istituisce Auschwitz come paradigma collettivo è il senso della rottura/frattura/crepaccio (così Federica Sossi) che si consuma sul piano individuale e collettivo. Fare letteratura su tale insieme di elementi implica sforzarsi quindi di attribuire un senso civile e morale a quella parte dell’esperienza che per sua natura tende invece a cancellare ogni aspetto residuo di umanità. Mi vengono in mente molte considerazioni tra visione, comprensione e rimozione ma anche ricordo. Così Nedo Fiano: “l’imperativo del campo era non pensare, Nicht denken”. Ancora, Ketty Hart: “forse una ragione per la quale i nazisti non possono essere mai dimenticati è che la loro ossessiva malvagità non può mai essere compresa”. Oppure Wolfgang Benz: “i tedeschi seppero dello sterminio e delle camere a gas senza volerlo sapere”, in ciò sostenuto da Primo Levi: “la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi perché volevano non sapere”, entrambi suggellati da Gitta Sereny: “l’autentico fenomeno non fu che Hitler persuase i tedeschi ad accettare per giusto ciò che era sbagliato ma che essi accettassero la legittimità di un certo grado di ignoranza” e da Vasilij Grossman: “il nazionalsocialismo aveva creato un nuovo tipo di criminale politico, il criminale senza crimini”. La letteratura della Shoah, e in particolare i testi di memorialistica, sono in genere spesso sconsolati perché vanno contro l’imperativo condiviso del “mai più!”, ritenendo semmai che ciò che è avvenuto possa ancora accadere. In ciò accolgono il riscontro espresso da Philippe Burrin quando, riferendosi agli anni del nazismo, parla di “apprendistato al disinteresse”. Si tratta allora di raccogliere una pluralità di sfide, raccontando in forma verosimile ciò che rasenta l’indicibile, facendolo spesso in modalità sufficientemente inedita (come con il graphic novel o il fumetto), quando la radice della deportazione e dello sterminio era invece la ripetizione, quindi la distruzione della specificità individuale e la trasformazione di un genocidio in una sequenza di gesti burocratizzati, standardizzanti, spersonalizzanti e quindi deresponsabilizzanti; infine, si tratta di porsi il problema non solo del come ma a che del perché di quel delitto, evitando le scorciatoie delle banalizzazioni così come delle astrazioni gratuite e fini a sé. Per questa ragione tale letteratura ha uno statuto spurio poiché deve decidere, di volta in volta, cosa trattenere nel suo interno, non presentando nulla di auto-evidente ma essendo semmai un continuo territorio di ibridazioni nelle forme e di invasione nei contenuti, laddove l’ibridazione è il terreno di incontro tra storia e memoria mentre l’invasione è la commistione tra finzione e falsificazione, banalizzazione e spettacolarizzazione. Oggi ci si interroga, esauritasi l’era del testimone (così David Bidussa e Annette Wieviorka) su chi sia legittimato, nell’ “età della postmemoria” (Marianne Hirsh), a parlare a ragion veduta e a sancire il fondamento della descrizione. La letteratura della e sulla Shoah chiama quindi in causa il problema non tanto dell’autenticità e della veridicità di ciò che è narrato ma anche e soprattutto dell’autorevolezza di chi narra. Un tema, quest’ultimo, che è al centro della dialettica contemporanea tra reale e virtuale, laddove sempre di più verremo chiamati a confrontarci con le sovrapposizioni tra il secondo e il primo, capace, il cyberspazio, di trasformare non solo le narrazioni ma anche di dare fiato e corpo a contro-narrazioni in grado di occultare e stravolgere.
Claudio Vercelli
(23 febbraio 2014)