Qui Modena – Villa Emma, le storie dei salvati
I molti collaboratori e gli amici della Fondazione Villa Emma, nata nel 2004 per studiare e raccontare la vicenda di solidarietà che ha portato la comunità locale ad accogliere e dare soccorso a 73 giovani ebrei provenienti da Germania, Austria e Jugoslavia sono confluiti a Nonantola (presso Modena) per il convegno internazionale “Un luogo a questa storia”. E proprio le storie degli ebrei italiani dopo l’8 settembre 1943 sono state protagoniste di una delle prime sessioni del convegno, con la ricerca di Liliana Picciotto, storica del Centro di Documentazione contemporanea di Milano e consigliera dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, dopo che in apertura dei lavori Fausto Ciuffi ha sottolineato l’importanza della collaborazione fra studiosi, enti e istituzioni, che è stata sin dall’inizio il maggiore punto di forza del progetto di studi e di creazione di un memoriale, obiettivo dalla fondazione che presiede. Gli interventi di Palma Costi, presidente dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna e dell’assessore alla cultura del comune di Nonantola Stefania Grenzi, hanno mostrato come sia solido e partecipe l’appoggio delle istituzioni locali, e il pomeriggio è sono stati introdotto da Micaela Procaccia, membro del comitato scientifico e dirigente del ministero dei Beni Culturali, riferimento della fondazione sia per i rapporti istituzionali che per il lavoro sulla conservazione dell’archivio e del patrimonio documentale. I problemi di storia sociale e culturale e la difficoltà a dare importanza e dignità ai giovanissimi, che invece proprio della storia di Villa Emma sono i protagonisti sono stati il centro dell’intervento di Sara Valentina Di Palma dell’università di Siena – intitolato “Storia dell’infanzia: una disciplina in cerca di statuto” – che ha illustrato come nei secoli si sia trasformato il concetto di infanzia, per sua stessa natura ambiguo e resistente a una definizione costante e certa. “I bambini non hanno diritto di parola, i bambini non sono una cosa seria”, questa era la concezione diffusa fino a non molti decenni fa in Italia, anche fra i ceti medio-alti, mostrando come il bambini siano oggetti storiografici deboli, molto difficili da studiare.
Le storie dei più di 30mila ebrei italiani intrappolati nei territori della Repubblica Sociale dopo l’8 settembre 1943 sono state protagoniste della ricerca presentata da Liliana Picciotto, che ha studiato gli intrecci fra la società perseguitata e quella dei possibili salvatori partendo dalle diverse decine di interviste fatte a coloro che, oggi molto anziani, possono raccontare cosa successe loro in quegli anni. Le risposte del campione preso in considerazione permettono, partendo da una ricerca qualitativa strutturata in modo da poterne ricavare anche dati quantitativi, di ricostruire i percorsi e le modalità di salvezza, le strategie di fuga e le speranze di chi allora cercava ogni sistema per nascondersi, per scappare e mettersi in salvo e raccontano con chiarezza su chi poterono contare gli ebrei italiani. I numeri che fanno riferimento alle varie categorie in cui sono state inserite le strategie di sopravvivenza parlano chiaro, ed è stato firmato un accordo con l’Archivio di Stato del Canton Ticino, che permetterà di studiare i verbali di ingresso dei circa 6mila ebrei che trovarono la salvezza in Svizzera. Le strategie furono le più diverse, dal cercare rifugio negli ospedali, contando su medici compiacenti, al tentativo di nascondersi in montagna o in campagna, scelto soprattutto da coloro che vivevano in città in maniera simmetrica al tentativo di mimetizzarsi nelle metropoli, su cui invece contarono quelli che vivevano nei piccoli centri. Molto basso il numero di quanti trovarono rifugio nei conventi e negli istituti religiosi, superato abbondantemente da chi si affidò a un cambio di identità, e da chi poté contare alla solidarietà di privati, amici, conoscenti o anche di perfetti sconosciuti che per mesi nascosero, nutrirono e protessero a proprio rischio gli ebrei in fuga.
Le storie di solidarietà e i molteplici tentativi di soccorrere e aiutare gli appartenenti alla minoranza ebraica italiana si andarono invece a scontrare con una diffuso e pervasivo collaborazionismo, talmente comune da venir definito “ordinario” dal professor Luciano Allegra, docente dell’università di Torino, che ha chiuso la prima giornata di lavori con un intervento intitolato “Delatori, carnefici e altre storie di ordinario collaborazionismo”.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(7 marzo 2014)