La politica e la menzogna
A volte si pensa di condurre, in fondo, una battaglia di retroguardia. Ci si domanda – quindi – fermando un attimo le macchine, che altrimenti macinano da sé terra e tempo, se non sia bene soffermarsi ad osservare il panorama, non dandolo per scontato in alcun modo. Si tratta quasi sempre di un buon esercizio, che aiuta a tenere i piedi per terra. Dopo di che, c’è sempre qualcosa o qualcuno che ci fa sobbalzare. Non è che i piedi perdano contatto con la terra. Semmai è la terra ad ondularsi e a dare quest’impressione. Su questa newsletter, così come nel mondo ebraico in generale, da molto tempo ci si interroga sulla manutenzione della memoria, così come sulle offese che ad essa possono essere arrecate. Non di meno, si è pervenuti alla convinzione che la memoria, quanto meno quella civile, tale perché si riflette su un’intera comunità di persone, fatta di ebrei, ma soprattutto di non ebrei, non sia un blocco rigido, monolitico. Semmai, piuttosto, costituisce un luogo aperto dove si incontrano e si raccordano esperienze e ricordi di esperienze tra di loro molto diversi ma che trovano un comune denominatore, ossia un linguaggio condiviso, sulla base del quale si rinnova quel patto che sta alla base del patriottismo repubblicano e costituzionale. Da questo punto di vista, allora, la memoria è anche una questione di ordine politico, poiché rinvia alle basi della convivenza tra persone, allo scambio tra soggetti diversi (per storia, idee, vite vissute e così via), alla ricerca di diritti condivisi. La memoria, aggiungiamo ancora, rimanda in ultima istanza alla coesione sociale, alla tenuta delle società non meno che della democrazia. Due questioni, per inciso, all’ordine del giorno, poiché paiono assai meno certe di quanto non potesse apparire anche solo qualche anno fa. Dopo di che, proprio in tale ottica, e non certo solo in omaggio ad una maniacale attenzione per un determinato passato, ci siamo soffermati ripetutamente su fenomeni sociali come il negazionismo olocaustico.
Ci torneremo, non certo per piacere bensì per necessità. Poiché se ad esso guardiamo non per come vorrebbe presentarsi (una commistione tra diritto di libertà di parola, esercizio dialettico, contropotere intellettuale, ricorso al metodo scientifico e ricerca del clamore) ma per come realmente è (una mentalità sospettosa a prescindere, che trasforma il diritto al dubbio, laddove quest’ultimo sarebbe il sale della ricerca, in paradigma ossessivamente complottistico, applicandovi una lettura capovolta del significato delle fonti e cercando in tutti i modi di comprovare i propri assunti nel momento stesso in cui definisce infondato ciò che non coincide con essi), dobbiamo ritenere che lo spazio di amplificazione delle sue affermazioni non sia esaurito. In altre parole, avrà un qualche futuro, senza neanche doversi sforzare oltre misura.
Poiché le sue “fortune” non sono ascrivibili all’inverosimiglianza di ciò che dice ma al come lo fa, e nei riguardi di quale pubblico. In un sistema di comunicazione pubblica spesso cacofonico non conta tanto il contenuto di un’affermazione ma la sua carica dirompente, tanto più se sembra liberare energie, altrimenti compresse, attraverso il gioco dell’eclatanza. Soprattutto laddove lo scetticismo generalizzato, che si trasforma in cinico rifiuto, è oggi una moneta corrente, nella crisi di trasformazione che le nostre società stanno vivendo e della quale un numero sempre maggiore di persone, e di famiglie, sono chiamate a pagare il solo pegno. Il negazionismo intercetta, quanto meno potenzialmente, una sorta di critica antisistema. Poiché dice che la storia è un costrutto meramente ideologico, al servizio dei “poteri” costituiti, dominati da gruppi di interesse assai circoscritti, che raccontano favole per svuotare la collettività del residuo spazio di decisione ed imporre definitivamente le loro volontà sovrane. La consonanza tra tale visione delle cose e il modo di presentarsi da parte di chi dice di operare una sistematica e secca opposizione alle derive della contemporaneità, a volte risulta essere corposa e quindi sorprendente. Il raccordo, da questo punto di vista, più che avvenire con la destra radicale, soprattutto di osservanza neonazista – che in Italia continua ad avere un seguito contenuto (o comunque contenibile) – si verifica tra alcune componenti della sinistra estrema, la cui identità ruota maniacalmente intorno ai cascami del conflitto israelo-palestinese e, soprattutto, con quell’universo populista che in Italia è andato determinandosi dal crollo della Prima repubblica in poi.
Forse è su quest’ultimo piano che si potrebbero giocare gli effetti di un negazionismo non più ideologico, ovvero strettamente debitore delle sue origini politiche, molto connotate, bensì “diffuso”, quindi assai più spurio nelle sue formulazioni ma, proprio per questo, capace di acclimatarsi a trend socio-culturali ampi, di lunga durata. Qualche sostenitore di tale atteggiamento si fregherà le mani, ribadendo che da tale riscontro non si può che trarre conferma del fondamento del proprio assunto: lo sterminio razzista non è mai avvenuto. Come, del pari, anche di altro. Poiché mettere in discussione la Shoah, in quanto evento fattuale, non è solo un esercizio rituale contro gli ebrei ma è il primo passo per una rilettura stravolta del passato, quanto meno dalla Rivoluzione francese in poi. Non c’è di che darsene troppa preoccupazione, trattandosi della messa in opera di un dispositivo retorico che è tipico dell’armamentario negazionista. Il fuoco è semmai altro. Dalla crisi della politica, sulla quale i populismi si alimentano, deriva uno spazio nuovo per i negazionisti. Tutto da verificare, nella sua tangibilità e nella sua praticabilità. Ma esiste, poiché il populismo non è solo la critica all’inanità e all’autoferenzialità dei cosiddetti «poteri forti» (e oscuri), ai quali si contrappongono soluzioni che cancellano le regole e le mediazioni, ma anche il terreno sul quale diventa più facile ricostruire la storia, e quindi il passato, secondo criteri di comodo. Non si tratta, in questo caso, di revisionismo, bensì di vero e proprio reversionismo.
Atteggiamento che rimanda ad una condotta intellettuale per cui di quello che è stato nei tempi trascorsi non ci si assume la problematicità, così come la complessità e la stratificazione che hanno accompagnato i percorsi collettivi (e gli eventi comuni, che da esso sono derivati), bensì solo ciò che può interessare sul momento. Conta il singolo “pezzo”, da prendere, esibire e usare a proprio beneficio. La storia si riduce a questa messa in scena. Già alcuni leader politici, con spiccate propensioni alla spettacolarizzazione scenica delle loro affermazioni, hanno rivelato di quale trama sia fatto questo modo di rapportarsi al passato come alla memoria di esso. Un modo ben più pericoloso di quanto non possa sembrare a chi volge a tali performance uno sguardo di superficie, frettoloso e di sufficienza. La logica che vi è sottesa, infatti, è quella che accompagna la pop-politica, dove tutto diventa intercambiabile, poiché qualsiasi affermazione può essere capovolta nel suo contrario e così via. Senza obbligo di razionalità alcuna che non sia quella dell’ottusa riaffermazione della insindacabilità della propria posizione. Questa è la cornice nella quale un “nuovo” negazionismo potrebbe trovare un’ altrimenti insperata udienza. E qualche riscontro. Non perché la politica, ridotta a populismo, gli riconoscerebbe qualsivoglia fondamento (obiettivo in sé al quale non è interessata) ma in ragione del fatto che le retoriche, le pratiche discorsive, le ellissi pseudo-dialettiche di cui si alimenta chi afferma che è falso ciò che è avvenuto, possono risultare congeniali al fittizio anticonformismo di chi cerca di captare, raccogliere e capitalizzare il crescente disagio. Sociale, economico ma anche culturale. Il tutto sotto l’egida dell’angoscia da espropriazione, per un oggi che sembra di difficile gestione ed un futuro che si presenta come ancora più problematico.
Già si è avuto il modo di argomentare sul nesso diretto tra un habitat comunicativo e informativo qual è il web, così come la cybersfera, e visioni complottistiche del mondo. Negazionismo ma anche banalizzazione, che del primo è una sorta di parente non troppo distante, ci pongono quindi una sfida, fatto che ci piaccia o meno. Essa non riposa in ciò che dichiarano di avere ad oggetto, ovvero l’inesistenza dello sterminio razzista o la sua irrilevanza storica ai fini di un giudizio morale. Come il campo del negazionismo non è quello degli studi storici, e non ha a che fare con la storiografia, così quello della banalizzazione non è la dimensione etica da attribuire alla Shoah, fatto di cui fa strame. Semmai il punto è un altro: fino a quale punto potrà spingersi il tentativo di rompere il senso della condivisione di una storia che appartiene a tutti, decretandone l’estinzione? Poiché se così fosse, mal ne deriverebbe non solo agli ebrei ma anche e soprattutto agli italiani come cittadini. E, non di meno, alla cittadinanza repubblicana e democratica. Sì, la battaglia è senz’altro politica, a patto che si riconosca che la fisionomia di quest’ultima sta velocemente cambiando.
Claudio Vercelli
(11 maggio 2014)