Qui Torino – Una comunità fortunata
La capacità di meravigliarsi e di vedere il bello e il buono delle cose, e soprattutto delle persone. Lo sguardo limpido, e la capacità di ascoltare. Ma anche la franchezza e un rigore che spiazza. Nelle ore passate a Torino, Clive Lawton – educatore, fondatore del Limmud e tra le personalità più influenti dell’ebraismo mondiale – ha avuto modo di conoscere la comunità sotto vari aspetti (nell’immagine la sua visita al tempio piccolo, accompagnato da Giulio Disegni, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane). Dal dialogo con la direttrice scolastica Sonia Brunetti, con cui ha ragionato su potenzialità e complessità del mestiere di educatori, all’incontro con la comunità, la sera, dove insieme a rav Roberto Della Rocca ha offerto la sua interpretazione di un tema complesso e attuale, fino alla visita alla scuola, dove ha saputo incantare tutti gli allievi, dai piccoli della materna ai più grandi dell’ultima classe delle medie. Senza smettere mai di ripetere quanto siano fortunati gli appartenenti alla comunità. Fortunati ad avere una sinagoga così bella, fortunati a vivere in una città sorprendente, fortunati a essere così intensamente coinvolti nella vita comunitaria, anche se in maniera conflittuale. E fortunati a poter mandare i propri figli in una scuola così intensamente e appassionatamente viva, in cui “i bambini hanno lo sguardo luminoso, e attento, e sono curiosi del mondo. E questo è bellissimo.”
Riconosciuto come una delle persone che contribuiscono di più al mondo al benessere del popolo ebraico, e come uno dei suoi più grandi educatori, Clive Lawton ha visitato Torino nell’ambito di un percorso che lo sta portando a conoscere diverse comunità italiane. Da Firenze a Roma, da Torino a Trieste. La presenza a Torino di rav Della Rocca è stata inoltre l’occasione per proseguire il ciclo di lezioni dedicate al “Rapporto con l’altro” alla luce dell’ebraismo, che nel pomeriggio ha incentrato il suo intervento su “Il rapporto tra il maestro e il discepolo”. Un argomento affrontato da tanti punti di vista, a partire dall’esempio di Yehoshua che non si allontanava mai da Moshè, in modo da apprendere anche dai suoi gesti quotidiani, dall’esempio, fino ad affermare che “Non tutto può essere imparato sui testi, sono fondamentali i modelli di riferimento: esiste un bagaglio esperienziale, comportamentale, psicologico che deve far parte delle competenze di ogni buon rabbino. Ma dobbiamo anche ricordarci che i rabbini non si tirano fuori dal cappello, come per magia: sono figli nostri… chi di noi, oggi, sarebbe felice che suo figlio facesse il rabbino?”. Ha spiegato come spesso i rabbini vivano in una “solitudine feroce” o come si chiedano loro cose impossibili, inconciliabili tra di loro.
La necessità di avere ben chiaro cosa si vuole dal proprio rabbino è stata sottolineata con forza da Clive Lawton durante una serata che ha visto il centro sociale della comunità pieno come nelle grandi occasioni. Per prima cosa ha spiegato come sia importante capire a chi ci si rivolge: “Comunità è una parola bella, facile, calda, che suona bene. La adoperano tutti volentieri, ma in ambito ebraico le si possono attribuire almeno tre significati: la Comunità con la maiuscola, composta dalle sue istituzioni, dagli iscritti; la comunità di coloro che sono attivi che si fanno coinvolgere, indipendentemente dal fatto che siano iscritti; e la comunità composta da tutti gli ebrei presenti sul territorio. A me è quest’ultima la comunità che interessa. Penso che sia mio compito occuparmi di ogni ebreo, che sia iscritto o che non lo sia, che sia attivo oppure che non lo sia. E sono responsabile di tutti loro, che lo vogliano o che non lo vogliano”. Vivere in una società aperta e fluida significa anche accettare che non è sempre necessario definire esattamente chi sia ebreo e chi non lo sia, e “per fortuna non sono un rabbino, non sono io a dovermi occupare di questo genere di questioni. Faccio parte di una comunità ortodossa, e ovviamente ci sono situazioni in cui è importante sapere chi è ebreo. E anche chi è maschio.” Ma spesso nelle comunità ci sono situazioni conflittuali che impediscono di guardare avanti, di lavorare insieme. E alla domanda “Chi di voi pensa che conflitti e mancanza di armonia siano un grosso problema in questa comunità?” le mani di tutti i presenti si sono alzate. “Oh dear! We do have a problem, here…”
Qualsiasi persona viva, vitale, che ha un cervello e lo usa, discute. È normale e sano. In ambito ebraico questo non solo è normale, è la norma, è parte della tradizione. Una buona argomentazione migliora lo studio, rende la conoscenza più profonda, più vera. A partire dalle due grandi scuole, di Hillel e Shammai, tra cui il dibattito era costante. Ma una discussione può essere una discussione buona, per “fini elevati”, oppure può essere fine a se stessa, radicalizzata, ormai completamente avulsa dall’argomento del contendere. E bisogna chiedersi sempre se si tratta di una discussione buona. Che deve essere sincera, portatrice di valori, fatta per arrivare a migliorarsi, per capire e capirsi. È necessario mettersi sinceramente all’ascolto dell’altro, saper rispettare visioni differenti dalle proprie, e anche capire che si possono fare delle cose insieme, e anche separatamente. Non è necessario essere sempre d’accordo su tutto, ma è necessario procedere insieme, nel rispetto delle reciproche differenze, cosa necessaria in una situazione come quella italiana, in cui il problema prettamente numerico impedisce di lasciare una comunità per andare a cercarsi un altro rabbino, magari solo duecento metri più in là, nella sinagoga del quartiere vicino.
E, soprattutto, bisogna ripartire dal principio base del Limmud: chi si lamenta di qualcosa è immediatamente invitato a farsene carico, a intervenire per migliorare le cose. Perché “If you are not part of the solution, you are part of the problem!”: se non si è parte della soluzione, allora si è parte del problema.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(14 maggio 2014)