Per Slow Food la cultura ebraica è “un patrimonio dell’umanità”
All’Università di Scienze Gastronomiche si incontrano studenti che arrivano veramente da tutto il mondo e la lingua dominante non è l’italiano, ma al normale mescolarsi di tanti idiomi in questi giorni si è aggiunto lo yiddish. Durante “The Global History of Jewish Food”, il seminario di due giorni organizzato dall’università piemontese insieme alla New York University sono state frequenti le citazioni di testi in yiddish, e pare normale sentire commenti e battute in una lingua che a Pollenzo – frazione di Bra, nel cuneese – non è proprio di casa. O, per essere più precisi, non era di casa prima che il professor Simone Cinotto si lanciasse nell’organizzazione del seminario insieme all’altra coordinatrice, Hasia Diner, che nelle settimane scorse ha tenuto un corso per gli studenti dei Master in Food Communication and Culture, proprio per prepararli ai temi affrontati in questi giorni.
Il presidente di Slow Food e dell’Università di scienze Gastronomiche, Carlo Petrini, ha salutato i presenti sottolineando l’importanza straordinaria della cultura ebraica. “Si tratta di un vero patrimonio per l’umanità, la cultura ebraica si è posta come un baluardo a difesa del riconoscimento del valore del cibo. Mangiare diventa così un atto di difesa di una valorialità che è per noi motivo di grande conforto. Si tratta di un patrimonio da preservare e da rinvigorire, e questo seminario è un’occasione di riflessioni che non sono valide solo per i nostri studenti ma devono essere diffuse al massimo delle nostre possibilità”.
E a Pollenzo a portare i valori della cultura ebraica in chiave più specificamente italiana sono arrivate le copie del giornale dell’ebraismo italiano, che – distribuite a tutti i partecipanti – sono girate in sala, e che i relatori hanno avuto occasione di commentare e analizzare insieme alla redazione. Nella mensa dell’Università di Scienze Gastronomiche, dove i prodotti usati sono a km zero, l’attenzione a evitare gli sprechi è costante, e dove chef pluristellati si alternano nell’inventare menù completi che non costino mai più di cinque euro, la storia e i valori di Pagine Ebraiche hanno raccolto l’interesse dei docenti delle università americane, dalla New York University, alla University of North Carolina. Quegli stessi docenti che nella prima sessione, “Eating across the Jewish-Non-Jewish Divide” hanno affrontato da tre punti di vista completamente diversi la questione del rapport fra ebrei e non ebrei, analizzato passando dal cibo. Le storie degli ebrei sovietici e del loro rapporto con il maiale a tavola si sono intrecciate con la ricetta dei carciofi alla giudia, così come compare – senza sostanziali differenze – nei ricettari rinascimentali e sul New York Times, praticamente ogni anno. Gennady Estraikh (NY University), quasi scusandosi, ha commentato durante la sua relazione sulla “goyshizzazione” degli ebrei sovietici che “lo yiddish in effetti ha una certa carenza di vocabolario, quando si tratta di maiali”, e fatto notare come una mappatura dei dialetti dello yiddish potrebbe sovrapporsi in maniera quasi perfetta alla mappatura delle diverse ricette per il gefilte fish. Flora Casson, studiosa di origine belga della North Carolina University, ha intrecciato le storie della vita di Lazzaro e Angelino, ebrei a Gavi alla fine del Cinquecento, con i percorsi dei commercianti di salumi d’oca nel basso Piemonte e spiegando come già allora le storie ebraiche si intrecciassero continuamente con quelle dei luoghi in cui vivevano, spesso in un’atmosfera di stima e rispetto reciproco. In alcuni casi, poi, la costante presenza ebraica ha permesso di diffondere una cultura e una religione che in molti casi è stata oggetto di curiosità e interesse sincero, come nel caso di coloro che si trovavano a ospitare i tanti venditori ambulanti che percorrevano le strade dei luoghi più remoti del mondo, dagli Stati Uniti al Sud Africa. Ambulanti provenienti dagli shtetl dellEuropa orientale e che sono stati protagonisti della lezione di Hasia Diner, con le loro capacità di mediazione e adattamento e insieme alla straordinaria apertura mentale mostrata da coloro che settimana dopo settimana li hanno ospitati e nutriti, curiosi e molto più aperti di quello che ci si potrebbe aspettare alle esigenze e alla cultura di quelli che venivano chiamati “egg eaters” proprio perché per rispettare la kasherut capitava spesso che mangiassero solo uova. Lettere e diari raccontano così una storia di integrazione e accettazione che parte da lontano, e che fonda le proprie basi sulla conoscenza reciproca e sulla curiosità per una cultura che a Pollenzo, nell’aula magna dell’università di Scienze Gastronomiche, è in questi giorni l’argomento principale e centrale per decine di studenti.
Ada Treves twitter@atrevesmoked
(10 giugno 2014)