…marranesimo

Si chiamava Selma, aveva sposato con rito solo religioso un commerciante di filati che aveva conosciuto in Romania, dove viveva. Avevano abitato a Timisoara per qualche anno e lì avevano perduto per un banale raffreddamento la loro primogenita Greta. All’inizio degli anni ’30 si erano trasferiti con il figlioletto a Trieste (da dove proveniva il marito), ma nel 1938 il regime fascista aveva deciso che lei era un’ebrea straniera e doveva abbandonare il paese. [Apro una piccola parentesi: Selma aveva iniziato a lavorare come impiegata bancaria, ma era anche una fine intellettuale. Conosceva molte lingue, frequentava i caffè triestini ed era un tipico esempio di donna ebrea colta emancipata. Molto colta. Per dire, tradusse diverse opere di Thomas Mann in spagnolo per il pubblico argentino]. Partì dall’Italia lasciandosi dietro per ragioni a noi ignote il marito e il figlio tredicenne. Sappiamo però che lo fece colma di dolore e rimpianto. Destinazione Argentina. A Buenos Aires conobbe un altro giovane ebreo italiano, Marcello, e nel 1940 si sposarono in chiesa. Si erano infatti battezzati, e i famigliari ne ignorano ancora oggi il motivo. Possiamo solo supporre che un atteggiamento prudenziale (tenuto conto di quel che avveniva agli ebrei nel mondo) li avesse convinti dell’idea che mettere su famiglia dovesse in qualche modo comportare un nascondimento. O forse fu vera convinzione religiosa. Chi lo può dire… La loro figlia, che ho avuto il piacere di conoscere poco tempo fa, è una devota cattolica, ma mi dice che l’argomento della conversione e della religione in genere erano tabù in casa: “certe cose non si possono chiedere”, le diceva la madre. La nipote di Selma è venuta per qualche giorno in Italia e ha portato fra le altre cose un libro di cui ignorava l’origine. Me lo ha portato e mi ha raccontato questa storia: un giorno ha visto sua nonna appartata in una stanza con il libro in mano. Credeva di essere sola, ed era apparentemente commossa. Alla vista della nipote ha riposto repentinamente il volume e le ha detto con fare solenne, alzando l’indice ammonitore: “tu non hai visto niente, promettilo!”. Ho estratto con curiosità il libro dal suo cofanetto un po’ liso, ed ho scoperto che si trattava di un comune Siddùr, un libro di preghiere quotidiane. Rito tedesco, in ebraico con testo in lingua tedesca a fronte in caratteri gotici, stampato a Praga nel 1901. Al suo interno una foto del primo marito giovane, e sulla prima pagina una sua dedica amorevole, anch’essa in tedesco. A me questa sembra una storia straordinariamente delicata e dolorosa. Un esempio moderno del peso con cui la Storia con la esse maiuscola (fatta di guerre, di migrazioni, di leggi ingiuste) interferisce con le piccole storie personali e di famiglia. Il marranesimo, che generalmente siamo abituati a collocare nella Penisola iberica dei secoli XV-XVI, è invece un fenomeno di lunga durata, che contribuisce alla costruzione e alla decostruzione delle identità moderne. È ancora tutto da scrivere il capitolo di storia che riguarda le conversioni che hanno accompagnato il trauma della legislazione razziale e delle persecuzioni. Ferite, lacerazioni familiari, compromessi, ritorni, abiure. Si tratta ancora di vicende che fanno fatica ad emergere, e forse solo la distanza geografica, le migliaia di chilometri e i decenni di non comunicazione, hanno permesso a questa microstoria di affacciarsi fra noi. Una donna marrana, scissa fra una devozione pubblica che la porta a chiedere e ottenere un’udienza particolare da Pio XII (la leggenda familiare narra che dopo quel colloquio nacque per grazia la figlia dei due giovani ebrei transfughi) e una dimensione religiosa più intima, segreta, costruita attorno a un Siddùr, una foto e una dedica, lacerti di un passato profondo che non voleva scomparire.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(13 giugno 2014)