A Tel Aviv
Sono a Tel Aviv da una settimana. Avevo deciso da tempo di trascorrere un mese nella “città bianca” per fare il mio secondo Ulpan. Pochi giorni prima di partire però sono stati uccisi i tre ragazzi israeliani rapiti, il ragazzo palestinese, sono stati lanciati centinaia di missili da Gaza e sono iniziati i bombardamenti massicci su Gaza. Che fare? Nonostante i consigli scoraggianti degli amici italiani e israeliani, ho deciso di mantenere l’impegno: ero certa, come avevo verificato in altre occasioni “calde”, che le notizie che giungevano all’estero erano più drammatiche della realtà. Mi ha sorpreso tuttavia l’atteggiamento ambivalente degli israeliani: mentre mi rassicuravano che tutto era tranquillo e che la vita scorreva normalmente tra lavoro, bar, spiaggia… di fronte all’ipotesi di un mio arrivo si affrettavano a dire che la situazione era in realtà molto grave, che sarebbe peggiorata e durata a lungo, che gli allarmi erano continui, che i bambini non erano mai lasciati soli, che insomma era meglio restarsene a casa. Mentre l’Ulpan mi comunicava per mail che uno dei miei presunti maestri era stato richiamato come riservista e che sarebbe stato il caso di imparare subito nuove parole tipo “tzuk eitan”, “chipat barzel”, “til”, “azakà”, “miklat”. Cui si sarebbero aggiunte, dopo l’ingresso dell’esercito israeliano a Gaza, “mivtzà karka’ee”, “tzeva adom” e “minharah”. Ma quell’ambivalenza corrisponde esattamente alla realtà di Israele in questo momento, e la si percepisce appena si sbarca all’aeroporto Ben Gurion. Alle 9 di sera di domenica, giorno feriale, quando si arriva dopo un volo tranquillo e regolare, praticamente vuoto per le disdette dei turisti, si trova un aeroporto pressochè deserto, dove i controlli sono velocissimi e il taxi che ti porta a casa attraversa una città deserta e silenziosa, un silenzio che si confermerà persistente e assordante per chi sa che cosa è Tel Aviv nel mese di luglio. La mattina dopo però ti compiaci per la tua scelta visto che tutto funziona in effetti normalmente, anche se a scala ridottissima: al bar, nei supermercati, nei ristoranti, sulla spiaggia, si sente parlare solo ebraico, i turisti sono partiti o non sono arrivati affatto, e anche molti israeliani preferiscono uscire di casa il meno possibile. Poi, all’improvviso, una sirena assordante ti costringe a correre insieme a sconosciuti nel rifugio o a raccoglierti intorno alla tromba delle scale dell’edificio più vicino. Perché i portoni delle case sono tutti aperti per consentire l’ingresso a chiunque in qualunque momento. Pochi minuti, per seguire le istruzioni che arrivano attraverso i cellulari mentre si sentono i colpi dei missili respinti dall’Iron Dome. Si esce quindi in modo sereno e ordinato e mentre il tuo pallore denuncia che sei una neofita dell’azakà e meriti un bicchier d’acqua di conforto, tutto torna alla normalità, chi riprende la bicicletta, chi finisce la birra lasciata sul tavolo del bar, chi torna a casa o in ufficio. Il rifugio è un anomalo luogo di socializzazione: in quello della casa dove abito ho conosciuto gli altri inquilini mentre in un altro ho incontrato un amico stampatore di Giaffa con cui avevo lavorato in passato. Insomma, dopo qualche giorno e ripetuti allarmi ti accorgi di condividere l’ambivalenza che ti era sembrata così singolare da lontano: vivi una normalità che non è affatto normale, perchè la città è silenziosa e ovattata e una sirena di allarme ti ricorda, almeno una volta al giorno, che la guerra che sembra così lontana, è a soli 100 chilometri.
Ma soprattutto, nonostante le responsabilità siano chiare e tutto sembri inevitabile, l’inferno di Gaza, l’asimmetria del conflitto e l’assoluta sproporzione delle forze in campo sono una fonte di profonda angoscia anche per chi sa di stare oggi dalla parte della ragione.
Adachiara Zevi, architetto
(20 luglio 2014)