Forse Esther
Come è stato scritto sul Corriere dal celebre critico letterario Pietro Citati, la scrittrice Katja Petrowskaja con il libro “Forse Esther” (Adelphi, 2014), “rievoca un mondo ebraico annientato”. Nel difficoltoso tentativo di ridonare un volto e una storia ai propri famigliari cancellati nella distruzione dell’ebraismo est-europeo, l’autrice riesce però anche a portare alla luce e quindi ad evocare, un mondo ebraico, altrettanto dimenticato, che nonostante il nazismo prima e il comunismo sovietico dopo, è riuscito a sopravvivere, a ricostruirsi e a riscattarsi.
Troppo spesso la storia ufficiale presenta alla collettività una storia ebraica distorta, costituita esclusivamente dall’emergere delle leggi razziali e della Shoah che annientò sei milioni di ebrei, come sorti dal nulla e poi immediatamente scomparsi, e dalla successiva formazione dello Stato d’Israele sulla scia del sionismo. Trascurando il percorso e la vitalità dell’ebraismo europeo precedente alle persecuzioni nazi-fasciste, e abbandonando alle congetture il successivo destino di quegli ebrei sopravvissuti e poi divisi nel 1945 tra blocco occidentale e orientale – solo nell’ex SSR dell’Ucraina, nel 1959 vivevano ancora 841.000 ebrei, circa la metà nel 1989, e approssimativamente 70.000 al presente.
Esemplare di questa concezione storiografia, quando l’autrice nella ricerca di qualche testimonianza sul bisnonno Ozjel, vissuto a Varsavia dal 1870 al 1915, si imbatterà nello scrivere le parole “ebrei-Varsavia” su Internet, per lo più nella parola “ghetto”, in riferimento all’infame ghetto istituito dai nazisti nel 1940, il quale non avrà nessun nesso con l’oggetto della sua ricerca: il precedente quartiere ebraico della città dove erano vissuti i propri antenati. La Petrowskaja cercherà così di riempire questi profondi iati, non come superstite dei campi di concentramento, o come ricercatrice sulle tracce delle vittime del massacro – di cui dovrà comunque avvalersi – ella conduce invece la propria ricerca, come discendente di quelle vittime e di quei superstiti, ritornando direttamente in quelle località, ormai trasformate dal tempo e avvolte nell’oblio e nella quotidianità. Una ricerca che avrà al tempo stesso, al pari di un bildungsroman, come risultato il recupero, e la realizzazione di una propria identità, composita e quindi realmente mittel-ost-europea. Dimostrando infine al lettore che non tutto è stato travolto dagli orrori della storia ma qualcosa di quell’universo è rimasto, che oltre alle strade di Kalisz, lastricate con le pietre tombali del cimitero ebraico cittadino, v’è ancora un’anima ebraica in Europa con la propria letteratura e i propri scrittori. E dunque come scrisse Stendhal che “tutto è perso, e niente è perso”.
Francesco Moises Bassano
(5 dicembre 2014)