Memoria e traslochi

ishot-298Due novità riportano la nostra riflessione sulla annosa vicenda del “Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti”, che dal 1980 risiede nel blocco 21 del campo I di Auschwitz. Minacciato di smantellamento, sembra aver trovato finalmente a Firenze una sede idonea ad accoglierlo: gli spazi della Ex3 a Gavinana, un centro per l’arte contemporanea attualmente in disuso, accanto a piazza Bartali. Un luogo certamente congruo alla sua straordinaria qualità artistica ma che, alienandolo dal sito per cui era stato concepito e realizzato, lo depriva della funzione originaria di rappresentare la storia e la memoria della deportazione in Italia.
La seconda novità concerne invece la donazione alla Fondazione Memoria della Deportazione dell’archivio di Giordano Quattri, l’”esecutore materiale” del Memoriale. Vi si trovano gli accordi, risalenti all’aprile 1979, tra l’Aned e l’allora direttore del Museo di Auschwitz, Kazimierz Smolen, per un memoriale che si configurò da subito come opera d’arte, cioè “libera e poetica interpretazione della grande tragedia nella quale sono stati coinvolti molti italiani”. Vi sono custoditi poi gli elaborati relativi alla costruzione vera e propria nello stabilimento di Quattri a Milano prima e nel campo di Auschwitz poi: la scelta della tela algerina per i 23 teli dipinti da Pupino Samonà, il sistema di ancoraggio alla spirale di ferro, la descrizione minuziosa dell’occorrente necessario agli operai per il tempo della costruzione. Ci sono anche i documenti che raccontano le scelte pittoriche di Samonà, sul testo guida redatto da Primo Levi. Scartata l’ipotesi realista, astratta o espressionista perché “irriverente nei riguardi di chi aveva subito una simile infamia”, il punto di riferimento “categorico” diventa per Samonà la spirale progettata dall’architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso, “un vortice ossessivo che annulla tutte le pulsioni positive dell’essere umano”, che occupa due ambienti del blocco 21, per una lunghezza di 80 metri. Occorre percorrerli tutti, lungo la predella di larice sospesa a 30 cm. da terra, avvolti dalla spirale dipinta che lascia scoperte le finestre consentendo la vista del campo. Galleggiante, la spirale è allo stesso tempo autonoma e ancorata allo spazio e al contesto. Osserva acutamente Renato Pedio: “Auschwitz era priva di tempo. Per questo è giusta la spirale qui. Ricostruisce il tempo dove la vergogna dell’uomo l’ha fermato. L’architettura può dunque avere significanza”.
Sulle 23 strisce di tela, lunghe ognuna 12 metri, è raccontata la storia d’Italia dal 1922 al 1945, il prima e il dopo la deportazione: le lotte operaie, l’avvento del fascismo, la repressione, le guerre coloniali, la guerra di Spagna, l’alleanza con la Germania, la guerra, la caduta del fascismo, l’occupazione tedesca, la resistenza, la deportazione, infine la Liberazione. Come scrive Levi: “La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa”. Il percorso lineare nello spazio si coniuga con la circolarità del racconto storico; il visitatore è avviluppato da una pittura ora astratta per assecondare il vortice architettonico, ora allusiva a lotte e protagonisti, con una modulazione cromatica che parte dalla cupezza del grigio e del nero per virare poi progressivamente e ottimisticamente verso il rosso-nero e culminare nel rosso-giallo. Così Samonà: “Scelsi colori di sicura resistenza, ma di nessuna preziosità, così che il gioco delle luci positive e negative fosse il più schematico e povero possibile. Il disegno delle figure doveva essere… cancellato ma non annullato nel proseguimento del lavoro: figura più cancellazione più figura più cancellazione, all’infinito. I corpi e i volti divennero diafani e incorporei, per lasciar intravedere la loro intima sofferenza insieme alla loro grandezza”. Leggibili e identificabili dunque ma non pedissequamente e realisticamente rappresentati.
Alla sinergia tra arte e architettura si aggiunge poi quella con la musica di Luigi Nono, che concede al Museo l’uso permanente di “Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz”, composto per l’Istruttoria di Peter Weiss e diffuso da sotto la passerella lignea. Il tutto con la regia sapiente di Nelo Risi.
Pur in uno stato di progressivo abbandono e degrado, il Memoriale resiste fino al 2008 quando, racconta Elisabetta Ruffini, direttrice dell’Istituto bergamasco per la storia della resistenza e dell’età contemporanea (ISREC), un decreto legge “mille proroghe”, un articolo, a firma dello storico Giovanni De Luna e un convegno, promosso a Torino dal Centro studi Acmos, lo bollano come vecchio e superato, inadeguato a rappresentare l’Italia, non conforme alla normativa sulle esposizioni nazionali varata dal Museo negli anni Novanta. In sostanza, come ribadisce nel 2009 il direttore del Museo, Piotr M.A.Cywinski, “l’esposizione italiana si basa su una espressione artistica che, in quanto arte, può o meno piacere, ma non possiede tuttavia quella dimensione educativa che è condizione indispensabile affinchè l’esposizione rispetti la normativa sulle mostre nazionali…Temo che non sia possibile solamente integrare l’attuale mostra con un contenuto educativo senza intaccare l’aspetto artistico.”. Ne consegue: non ha senso mantenere nel campo un memoriale la cui natura è puramente artistica. Ergo, dal 2011 il Memoriale è chiuso al pubblico e il 30 novembre 2014 deve essere smantellato.
Ma come, dopo trent’anni ci si accorge che il Memoriale è un’opera d’arte e come tale priva di dimensione educativa e inadatta a rappresentare l’Italia nel Museo di Auschwitz? A prescindere dalla legittimità della contrapposizione tra arte e valore educativo, il carattere non didascalico del Memoriale è esplicito sin nelle premesse progettuali: lo stesso Belgiojoso spiega infatti nel ‘79 che “la comunicazione non è affidata agli strumenti consueti quali cartelloni, didascalie e fotografie, è affidata allo spazio, alle suggestioni della composizione pittorica e alle immagini”, ricollegandosi idealmente alla tradizione degli affreschi. Una soluzione originale per una storia peculiare: “Non era facile spiegare a un pubblico vasto ed eterogeneo la storia della partecipazione italiana alla Resistenza e al comune destino della deportazione, particolarmente in un paese dell’Est che aveva assistito al passaggio dei nostri soldati accanto alle armate germaniche, rumene e ungheresi nel ‘41-’42”. In realtà, quello che viene messo radicalmente in discussione è il carattere “politically oriented” del Memoriale, una lettura storica, cioè, databile all’epoca della costruzione, che sacrifica a quella politica le altre forme di deportazione, in primis quella razziale. Così si spiega perchè, nonostante il consenso iniziale, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si sia unita al coro dei detrattori.
Alla minaccia di smantellamento nel 2008, ANED e ISREC reagiscono energicamente e tentano il tutto per tutto, ben consapevoli della gravità di alienare da Auschwitz un memoriale i cui strumenti di trasmissione della memoria sono quanto mai attuali.
L’attitudine non a descrivere e rappresentare la storia ma a farla rivivere, lasciando a ognuno autonomia di elaborazione è infatti la stessa che ha animato Peter Eisenman alle prese con il Denkmal für die ermordeten Juden Europas a Berlino e Daniel Libeskind con il Jüdische Museum o l’artista Jochen Gerz i cui contro-monumenti spariscono per “passare il testimone” al visitatore. Non delegare e impigrire la memoria ma attivarla e stimolarla attraverso percorsi, spazi vertiginosi e occasioni d’immagine: questo il messaggio rivoluzionario del Memoriale di Auschwitz. Redigono prima un manifesto per dar vita poi, insieme alla Scuola di restauro dell’Accademia di Brera e ai sindacati edili di CGIL, CISL, UIL (Lazio, Lombardia, Nazionale) al “Cantiere blocco 21”, laboratorio di studio, documentazione e conservazione. 32 allievi dell’Accademia si trasferiscono per una settimana ad Auschwitz dove eseguono il rilievo del Memoriale ed effettuano la pulitura e manutenzione delle tele, della passerella e della struttura circostante.
Il progetto “Glossa” origina in quell’ambito e prevede un apparato didascalico che integri e commenti criticamente le immagini, faciliti la lettura delle tele e dunque della storia italiana, aggiornandola alle nuove acquisizioni storiografiche. Una via giudicata impraticabile dal direttore del museo ma anche da storici di alto profilo come David Bidussa, convinto che “la partita non si risolve aggiungendo un po’ di narrazione o delle integrazioni ‘a margine’”. Fallito il tentativo di spostare il Memoriale nel campo di Fossoli, dove pure sono passati sia Primo Levi sia Lodovico di Belgiojoso, lo smantellamento sembra proprio inevitabile. Solo l’appello in extremis dell’Aned nel marzo scorso ha aperto le porte alla lodevole iniziativa fiorentina che, pur in un luogo diverso da quello per cui era stato concepito, consentirà, finanziamenti permettendo, al Memoriale di continuare a vivere.
Auspichiamo che, nella guerra tra le memorie che dagli anni ‘80 ha soppiantato l’egemonia della deportazione politica, ciò che andrà a sostituire il capolavoro di Belgiojoso non sia espressione di un’altra, “unica”, memoria, che sancirebbe, opina Bidussa, “la sconfitta culturale di chi vuol costruire una cultura della convivenza e una memoria universalistica”. Soprattutto, che affidi nuovamente la sua progettazione alla sinergia tra storia, memoria, arte e architettura.

Adachiara Zevi, Pagine Ebraiche gennaio 2015

(29 dicembre 2014)