Il colore dell’identità
La questione delle inaspettate convergenze rosso-brune si incontra, molto spesso, con il binomio «tradizione e identità», due parole intese come una sorta di endiadi granitica. In realtà, quando si gratta sotto la patina di questi due termini, si scopre non solo che il loro spessore culturale è molto circoscritto ma che spesso quello che ad essi è attribuito in termini di profondità storica – ossia, quanto gli è ascritto come deposito antico, se non atavico, di valori indifferenziati e immutabili, sempre uguali a sé – è semmai il prodotto di un’invenzione molto recente. Tutta la tradizione reazionaria trova peraltro il suo punto di coagulo nella risposta regressiva alla Rivoluzione francese, rinnovandosi successivamente, durante la seconda metà dell’Ottocento, nel rapporto e nell’appello alle masse e divenendo, da patrimonio di circoscritti gruppi di élite – spodestati dalla repentina trasformazione indotta dall’accelerazione economica, sociale e culturale nel frattempo intervenuta -, a elemento da trasfondere e diffondere nella collettività, ossia in società di “massa”, il cui consenso diventa fondamentale per dare un po’ di fiato ad un progetto politico che non si riduca solo alla lamentazione per il “bel tempo andato”.
L’identità, a sua volta, diventa una questione capitale tanto più dal momento che le società contemporanee vanno, di passo in passo, basandosi sempre di più sulla trasformazione permanente, di fatto mettendo costantemente a dura prova quel senso di continuità che, invece, nel passato, prima dell’età rivoluzionaria, contraddistingueva gli uomini e le comunità di cui questi erano parte. Il problema di un’identità collettiva si accompagna, storicamente, se vogliamo mantenere lo sguardo rivolto all’Europa, alla nascita del moderno sistema degli Stati-nazionali, dopo la pace di Westfalia del 1648, che sancisce il declino delle guerre religiose e il progressivo affermarsi della «nazione», nonché del principio di sovranità nazionale, come elemento di riferimento per una pluralità di comunità, originariamente divise tra di loro. Identità, in questo caso, implica il trovare quegli elementi socio-culturali che possano accomunare soggetti e storie diverse sotto un unico “cappello”politico, ovvero una sola fedeltà, un sistema di diritti e di doveri reciproci che, nel momento stesso in cui includono coloro che entrano a fare parte della medesima collettività escludono quanti ne rimangono fuori (per ragioni geografiche, politiche, religiose, culturali e quant’altro). Non di meno, e lo ricordiamo en passant, è proprio a partire da questa nuova configurazione dei rapporti tra persone, poteri e amministrazioni che viene affermandosi, sia pure lentamente, quel principio di laicità che sarà poi uno degli elementi che si porranno alla radice dell’emancipazione degli ebrei europei tra il XVIII e il XIX secolo. Cosa c’entrano questi discorsi, così come una tale intelaiatura storica tanto complessa, con quelle questioni più immediate, e forse anche maggiormente banali, delle sovrapposizioni tra alcune componenti della destra e della sinistra su temi delicati ma di stretta attualità, come ad esempio il conflitto israelo-palestinese e l’ebraismo?
Una prima cosa da ricordare è che l’una, la destra, e l’altra, la sinistra, sono elementi di uno spazio politico condiviso, ossia del modo di intendere l’organizzazione permanente degli interessi, tra di loro conflittuali – all’interno però di società nazionali, ovvero accomunate dall’appartenere ad un’unica sovranità -, che nascono e si sviluppano proprio con i processi rivoluzionari. I quali rivoltano come un calzino il modo di concepire la politica, attribuendo il fondamento e la legittimazione della decisione che la politica stessa deve produrre alla collettività, ovvero al «popolo sovrano». Semplificando al massimo, per la destra reazionaria e legittimista, che piange la caduta dell’Ancien Régime (e dei suoi privilegi), la tradizione è il rimando al sistema di ineguaglianze che vigeva prima delle rivoluzioni, di cui canta le lodi e celebra la gloria. Di esse si dice che erano (e sono) il prodotto delle «naturali» differenze tra gli uomini. E che tale «naturalità» è da intendersi così perché deriva dalla volontà imperscrutabile di una entità superiore, dispiegandone in tal modo il disegno in terra. Tutto quello che fuoriesce da siffatto assetto (peraltro completamente stravolto dalle rivoluzioni, a partire da quella industriale prima ancora che dalle sollevazioni politiche borghesi e del Terzo stato), non è che il tradimento di un equilibrio che deve invece a tutti i costi essere ripristinato. Altrimenti la decadenza sarà l’unico orizzonte possibile. La sinistra, al contrario, nelle sue diverse accezioni e manifestazioni, fa proprio il discorso sul «progresso» come processo inevitabile, ovvero in quanto fatto socialmente necessario, per più aspetti in sé positivo, ma al quale occorre dare un indirizzo politico, una direzione di marcia che vada nel senso del nuovo interesse pubblico, quello per l’appunto che deriva dalla sovranità (e dalla volontà) popolare. Altrimenti, il rischio è che le disuguaglianze si facciano ancora più pronunciate di quanto già non lo fossero state già nei tempi antecedenti alle grandi trasformazioni. Poste in questi termini, molto semplificatori, le distinzioni tra i due soggetti del campo politico contemporaneo parrebbero essere chiare e incontrovertibili. Nonché durevoli. Senza andare a scomodare, ancora un volta, i classici del pensiero politico, da Machiavelli a Bobbio.
Non di meno, l’inconciliabilità tra le due parti dovrebbe risultare pressoché immediata, quindi vigente a tutt’oggi: da una parte chi ritiene che il governo delle cose di questo mondo debba confrontarsi con l’”ovvia” necessità di essere affidato ad élite circoscritte, tali perché dotate di una “naturale” virtù in tal senso, confidando sul fatto che ciò che regge le sorti dell’evoluzione umana sia, per così dire, un’accettabile disuguaglianza, fatto da riportare anch’esso alla sua presunta funzionalità rispetto agli equilibri duraturi del mondo; dall’altra chi, invece, si appella al bisogno di arrivare ad una sostanziale eguaglianza tra gli uomini, incentivando in ognuno d’essi sia la capacità di autogestione che quella, non meno importante, della partecipazione alle decisioni di interesse comune. La democrazia – altra parola molto ampia, e anche un po’ ambigua nelle tante definizioni che di essa si danno – ha storicamente messo insieme queste cose, stabilendo un terreno di confronto che media le tendenze altrimenti divergenti e imponendo che esse non si trasformino in conflitto totale, ovvero in una guerra civile. Non a caso, quando la mediazione politica viene a mancare, subentrano i fondamentalismi e si procede alla via della distruzione. Dopo di che, se si accetta il principio – che peraltro si impone da sé, nei fatti – per cui la storia sia trasformazione permanente, certe distinzioni non è detto che non valgano più in assoluto ma sono comunque destinate a subire torsioni, anche significative, incorporando scarti progressivi di significato. Un punto di incontro tra chi parla un linguaggio “rosso-bruno”, provenendo a volte da sponde molto diverse, mischiando quindi i valori dell’egualitarismo con quelli dell’antiegualitarismo, è il discorso sulla sovranità perduta. Se l’interlocutore degli appelli è il «popolo» (per ripeterci ancora: più prosaicamente la «gente»), inteso perlopiù come una massa indistinta di individui, ai quali richiamarsi per rispondere alla «crisi dei valori» (quest’ultima una sorta di istanza metafisica, alla quale attribuire tutte le rovine del mondo), si dirà che il vero fulcro della caduta di tali valori stia, oggi più che mai, nell’espropriazione della sovranità nazionale da parte di oscure élite, che divorano le ricchezze delle comunità nazionali non meno che il diritto di queste ad “autogovernarsi”.
Un tema, quest’ultimo, tanto convincente quanto sinistro. Che rimanda, in controluce, alla commistione tra «giudeo-bolscevismo» (una categoria collaudata dai nazisti, per la quale il comunismo, ossia la costruzione di un mondo fatto di identici, dove le “naturali” differenze sarebbero state cancellate dal totalitarismo di sinistra, è in realtà il prodotto della bieca volontà degli ebrei) e il fantasma del capitalismo internazionale, soprattutto quello finanziario, inteso come una sorta di macchina mondiale, che divora le identità, le soggettività, le peculiarità personali, locali, comunitarie. La triade composta dal populismo, dal comunitarismo e dall’identitarismo dichiara di volere difendere, a spada tratta, la dignità dei nuovi oppressi, tali perché espropriati prima di tutto del diritto a mantenere e a coltivare la propria specificità. In questo intercetta aspetti, frammenti e cascami di una parte di ciò che resta dell’ecologismo politico – già ci eravamo soffermati su questo aspetto – che contrappone all’artificialità (e all’artificiosità) del mondo contemporaneo la presunta “naturalità” di quello trascorso. All’anarchia del presente, alla sua opacità, all’insopportabile iniquità che lo connota, elementi funzionali all’ingiusto arricchimento dei pochi, si contrapporrebbe quindi la possibilità di tornare ad un mondo migliore, dove le distinzioni tra giusti e ingiusto, tra superiore e inferiore, tra morale e corrotto, tra sano e insalubre verrebbero così ripristinate. Il condimento di questo modo di vedere le cose, che riesce in parte a dare forma alla crisi di significato che la globalizzazione innesca, offrendo tuttavia illusorie diagnosi e ancora più perniciose cure, è quindi la nostalgia per un passato che dovrebbe invece essere ripristinato integralmente. Il passato dove, per l’appunto,vigeva un equilibrio tra le parti. Una sorta di corrispondenza di questa ad un’unità organica, ad un unico centro, di contro al tempo corrente, quello del conflitto senza mediazione, della sopraffazione, della distruzione. Immagine nel suo complesso suadente, seducente ma, nel medesimo tempo, falsa. Alle sue stesse fondamenta. Tuttavia in grado di lenire il senso della deprivazione e che dà una specie di piccolo risarcimento morale, magari da spendere come bonus in politica. Quel “passato” di cui si canta la presunta gloria è veritiero e verace come le raffigurazioni della campagna felice e allegra offerta dalle pubblicità di certe industrie agro-alimentari. Tutto solare, sorridente e armonioso. In realtà, integralmente fittizio, a meno che non si voglia credere, sempre rifacendosi al tormentone della «crisi dei valori» tradizionali, che vivere miseramente, così come lo era per la stragrande maggioranza dei braccianti che popolavano le nostre terre, sia un segno di predestinazione e un omaggio all’ancestralità. Detto questo, ancora una volta chiediamoci come (e perché) gli ebrei c’entrano, o possono essere chiamati in causa, in questo discorso. Soprattutto: quanto? Molto, poiché sono ancora una volta additati nella loro natura di esseri polimorfi, capaci di adattarsi ad ogni situazione (quindi privi di una “tradizione” e di una identità” loro proprie che non siano quelle che gli derivano dal mero calcolo d’utilità, che sarebbe la vera essenza, il metro su cui misurano se stessi e gli altri). Soprattutto, manipolatori per eccellenza, agenti quindi del disordine perché è proprio in tale condizione che possono trarre i loro maggiori utili.
L’ebraismo, questa volta chiamato «sionismo», assume di nuovo, in un angosciante effetto di ritorno, le fattezze di un organismo parassitario, che si nutre delle altrui disgrazie. Non è solo una parte del discorso politico arabo, e soprattutto di quello islamista, sullo Stato d’ Israele, peraltro entrambi non nuovi, in particolare laddove di quest’ultimo se ne denuncia l’abusività storica, non riconoscendogli lo status di nazione bensì di «entità». C’è dell’altro, poiché la nuova retorica giudeofobica si articola per cerchi concentrici, facendo propri nuovi paradigmi culturali, trasversali nella loro qualità. La transitività dalla destra alla sinistra, e di riflesso dalla seconda alla prima, si gioca quindi sull’impossibilità di gestire i conflitti di interessi con le armi della politica ma anche della scomposizione delle identità politiche e sociali pregresse nonché sul desiderio, che gli opposti radicalismi da sempre nutrono, di porre termine al conflitto tra parti contrapposte per dare finalmente origine all’armonia superiore, dove ognuno “sta al suo posto”. Gli ebrei, in questa costruzione culturale e mentale, sono invece i soggetti della perenne trasformazione, quelli che rendono impossibile che un tale desiderio, così “elevato”, possa tradursi in politica concreta. Vecchio e consolidato antisemitismo, potrà obiettare qualcuno. Non a torto, ricordandogli però che l’antisemitismo è tale proprio perché è una mentalità onnicomprensiva, capace di rinnovarsi costantemente. Cosa che sta facendo anche adesso, partendo dal conflitto israelo-palestinese, la cui lunga durata gli offre opportunità altrimenti insperate. Qui si gioca, infatti, la saldatura rosso-bruna. Questo è in campo prospettico sul quale proiettare tutti gli spettri, dalla globalizzazione all’omologazione, dal «tramonto dell’Occidente» al recupero dell’«identità» e della «tradizione». A ben guardare, non è per nulla la «fine delle ideologie» ma, piuttosto, la vittoria dell’ideologia dell’anti-ideologia, che celebra il vuoto come se fosse un pieno, per meglio dire che oltre al suo fondamentalismo, non importa quale aggettivazione ad esso si accompagni, c’è solo il baratro. Tradizione, identità e morte. Ecco una nuova triade su cui lavorare.
(3/continua)
Claudio Vercelli