Memoria – La fine dell’orrore
“Normalmente la gente pensa che la liberazione dei campi di sterminio si compia in un lasso di tempo breve, mentre invece occupa un intero anno, da quando si aprono i cancelli di Majdanek a quando questo avviene a Mauthausen e Stuthoff. Ed è tutto fuorché un lieto fine, visto che dei 700mila prigionieri liberati nel gennaio del ’45 circa 300mila moriranno di lì a poco”. Correggere le letture distorte, vincere i clichè, cambiare la percezione dell’opinione pubblica su un tema di straordinaria attualità come ricorda, questo 27 gennaio, il 70esimo anniversario dalla chiusura della macchina della morte per antonomasia: Auschwitz-Birkenau.
È la sfida della mostra “La fine dell’orrore. La liberazione dei campi nazisti” (27 gennaio-15 marzo 2015) con cui la Fondazione Museo della Shoah di Roma torna a proporsi al pubblico in questa nuova stagione di Memoria. Ospitata nelle sale del Vittoriano, la mostra è l’ultimo anello di una catena narrativa che ha visto approfondire, in questi anni, diversi momenti storici della Shoah e del processo di annientamento perpetrato a danni delle diverse identità che furono oggetto di persecuzione. Dall’emanazione delle leggi razziste che già nel ’38 privarono gli ebrei italiani dei diritti più elementari al lager di Auschwitz-Birkenau, dall’istituzione dei ghetti nazisti alla razzia del 16 ottobre al Portico d’Ottavia.
La nuova prova, frutto di un lavoro corale che ha portato lo staff della Fondazione in molti lager d’Europa alla ricerca di elenchi, verbali, fotografie, materiale archivistico inedito, occupa lo spazio più esteso finora concesso del Vittoriano e dedica una sezione rilevante a quella che fu l’esperienza italiana con i crimini compiuti sia alla Risiera di San Sabba di Trieste che nel campo, meno noto, di Bolzano. Ad essere consultati, tra gli altri, gli archivi di Cdec, Ucei, Comunità ebraica di Torino, Istoreto, Museo ebraico della Comunità di Ferrara, Aned nazionale.
“La fine di un lager non va confusa con il modo in cui si è soliti pensare a una ‘liberazione’. Carri armati in trionfo, scene di giubilo tra la gente, grandi sorrisi. La liberazione di un campo di sterminio è una cosa ben diversa, nella maggior parte dei casi il concetto di festa proprio non esiste e lascia lo spazio a una ‘tragedia nella tragedia’. Questa è la verità e non molti sembrano averne coscienza” spiega il direttore scientifico della Fondazione Marcello Pezzetti.
Ed è proprio per questo che il visitatore si accomiaterà dal Vittoriano ascoltando brevi pensieri e riflessioni dei Testimoni della Shoah sull’esperienza dell’imprigionamento da cui si deduce, sottolinea Pezzetti, come gran parte di loro sia stata sì liberata fisicamente ma la loro testa continui a vagare nel campo. “Qualcuno si è salvato mettendo in piedi una famiglia, altri no. È un mosaico complesso, ma fatto di tanta sofferenza”, chiosa lo storico.
Per questo le biografie dei Testimoni, composite e rappresentative delle varie deportazioni, saranno al centro dell’intera narrazione, disseminate nei vari ambienti della mostra. Da Roma a Firenze, da Milano a Trieste, per arrivare a Rodi, alla Libia e alle comunità periferiche rispetto alla Penisola, le storie più rappresentative della Shoah italiana parleranno instaurando un’empatia immediata con il pubblico. “Una istantanea, per capire la sofferenza di cui stiamo parlando. E vedi protagonisti due sopravvissuti rodioti: Sami Modiano e Alberto Israel, il cui fratello morirà tra le braccia di Sami pochi giorni dopo il 27 gennaio. Questa – spiega Pezzetti – è la liberazione dei lager”.
La ricerca di materiale, possibile grazie al supporto delle più importanti istituzioni internazionali sul tema della Memoria, si è svolta principalmente in tre direttrici: il reperimento di fotografie, quello di filmati, il contributo memorialistico arrivato dai Testimoni e dai loro familiari. Oltre 200 le fotografie esposte, alcune di efficace crudezza: si vedono distese di morti, volti stravolti dalla fame, occhi spenti. La locandina della mostra ritrae invece un ex prigioniero puntare il dito contro il suo aguzzino: un’immagine potente, il bivio della storia. Per quanto concerne i filmati, prosegue Pezzetti, tale è l’impatto emotivo che una parte di essi è stata accolta in una stanza riservata “così da essere fruibile solo da un pubblico consapevole”. La raccolta di testimonianze ha visto il coinvolgimento dei sopravvissuti ancora in vita e ha permesso di accumulare un ingente mole di materiale tanto che, chi ne ha voglia, può “fermarsi ore e ore a guardarli”. La terza direttrice ha offerto risultati altrettanto d’impatto visto che, non pochi Testimoni, hanno voluto omaggiare il Museo della Shoah delle casacche indossate durante la prigionia e dei vestiti che hanno sancito il loro ritorno nel mondo civilizzato. C’è la casacca di Nedo Fiano, o ancora i vestitini che portavano le sorelle Andra e Tatiana Bucci quando poterono abbracciare la madre nella Roma liberata dal giogo nazifascista. E ancora ci sono le lettere che gli Schonheit riuscirono a scambiarsi tra i campi di Buchenwald e Ravensbruck profittando del fatto che non furono identificati come ebrei – cosa che avrebbe reso impossibile la circolazione di missive – dai tedeschi. Sion Burbea traccia infine su una mappa scritta a mano l’itinerario della sua persecuzione: Libia, Fossoli, Auschwitz-Birkenau, Bergen Belsen. E poi, la libertà: Italia e ancora Libia. Racconta Burbea: “I tripolini, trasferiti a Biberach in Baviera, vennero liberati dai francesi il 23 aprile 1945. Dopo una sosta nei campi profughi di Como e Alberobello rientrarono in Libia sulla motonave Garibaldi il 12 settembre”. Tutto finito? Neanche per sogno. Il 4 novembre dello stesso anno iniziano infatti i pogrom antiebraici dando il via a oltre 20 anni di tensioni che si concluderanno soltanto con la cacciata del ’67. Ma questa è un’altra storia.
Realizzata con il sostegno di Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Comunità ebraica di Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Regione Lazio e Roma Capitale, la mostra conta sul supporto di tanti donatori privati. In particolare Pezzetti vuole ringraziare Wolfgang Haney, collezionista berlinese e storico amico della Fondazione il cui contributo “si è rivelato ancora una volta fondamentale”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(18 gennaio 2015)
(Nell’immagine in alto, simbolo della mostra, un sopravvissuto russo liberato dalle truppe americane a Buchenwald identifica una guardia violenta. La mappa in basso ricostruisce invece l’itinerario di Sion Burbea)