Qui Roma – La Memoria per Daša Drndić
A rendere omaggio a Daša Drndić, la scrittrice croata che ieri ha presentato la sua ultima fatica “Trieste” (ed. Bompiani) alla Feltrinelli di piazza Colonna a Roma, è giunto l’ambasciatore della Repubblica di Croazia Damir Grubiša che ha accolto il pubblico con queste parole: “Il Financial Times ha definito Trieste un capolavoro. La vicenda narrata da Daša Drndić – continua poi Grubiša – fa riaffiorare il destino dell’individuo vittima della Storia. Come ambasciatore non posso che dirmi fiero del fermento culturale del nostro paese rappresentato così bene da questa autrice. Auguro al libro buona fortuna e spero davvero che riesca ad accattivarsi il maggior numero di lettori”.
L’ambasciatore ha poi sfogliato con interesse l’ultimo numero di Pagine Ebraiche che dedica al libro un ampio servizio.
L’incontro viene moderato dallo scrittore di origine fiumana Diego Zandel: “Il libro che presentiamo oggi è ambientato a Gorizia durante la Seconda guerra mondiale e vede come protagonista Haja una ragazza di origine ebraica ma assimilata che intreccia una relazione con un nazista da cui ha un figlio che scompare misteriosamente. Si scopre successivamente che il figlio è stato inserito nell’agghiacciante programma di ‘arianizzazione’ Lebensborn. E proprio di questo vorrei parlare con Luciana Castellina, scrittrice di successo proveniente da una famiglia ebraica triestina: cosa sapevate in quel periodo degli orrori nazisti?”.
Castellina risponde: “Quello di Daša Drndić è un libro molto singolare, mi permetterei di definirlo bizzarro, che presenta una documentazione straordinaria. Noi non sapevamo davvero nulla di ciò che avveniva in quegli anni proprio come Haja che andava al cinema mentre a Trieste si consumava la tragedia della Risiera di San Sabba. Le mie zie ebree, rifugiatesi a Roma, quando tornarono nella loro villa triestina la ritrovarono completamente cambiata: i nazisti se ne erano impossessati e avevano costruito dentro perfino una piscina. Avevano documenti falsi ed era piuttosto comico pensare che quando chiedevamo alla zia smemorata di chi fosse figlia per allenarla a mentire, lei rispondeva: ‘Di Lazzaro’ e noi in coro: ‘Ma no zia! Devi dire di essere figlia di Giulio’. Il dramma ha toccato anche noi alla fine, nel libro che presenta la lista degli ebrei italiani deportati c’è anche quello di una zia, Fernanda Ascoli, e un’altra zia morì attraversando il confine per fuggire in Svizzera mettendo il piede in fallo. Ah la Svizzera. La Drndić descrive perfettamente il dramma della neutralità: la croce rossa portava i panini ai deportati ma non ha mai pensato di fermare un solo vagone carico di persone mandate a morire. C’è ancora tanta ignoranza sull’argomento così come ne troviamo anche sulla persecuzione degli sloveni. Sono diventata comunista proprio per questo: mio nonno era amico di Oberdan, in casa gli sloveni venivano chiamati sciavi, schiavi. Non potevo accettarlo”.
A dare una lettura stilistica dell’opera è lo scrittore e critico Paolo di Paolo: “Non è solo la storia ad essere potente ma la gestione che ha della storia l’autrice. Vengono contemplate tutte le possibilità di stile: dalla fonte storica alla biografia fino all’elenco di tutti gli ebrei italiani deportati che taglia il libro al centro con l’epigrafe ‘Dietro ogni nome si cela una storia’. Elemento che fondamentalmente significa: di ogni nome bisognerebbe scrivere la storia. L’ambizione è quella di raccontare i sommersi, e uso questo termine appositamente citando Primo Levi. Il dramma però è che nessuno potrà mai raccontarli tutti. Vengono poi svelate anche le vicende dei carnefici in una mescolanza opaca. Drndić a un certo punto azzarda la narrazione in prima persona e fa parlare un suicida emblema della testimonianza postuma di un sommerso. Vengono inseriti documenti reali nella loro nudità come le tabelle ferroviarie che rendono ancora più angosciante la vicenda. La sua forza sta nel non attenersi ad essere una storica ma nell’essere scrittrice: solo così più mescolare a fatti incontrovertibili l’immaginazione”.
A conclusione prende la parola Daša Drndić: “Avete raccontato così bene il mio libro che non saprei cosa aggiungere. Se mi chiedete dell’ispirazione, vi dirò che essa non esiste. La scrittura è un mestiere nel quale si impara, si fatica e si migliora. Ho impiegato due anni a scrivere questo libro e la ricerca documentaria è andata di pari passo con la stesura. Ho preferito scegliere uno stile secco come quello di Brecht perché è proprio questo che suscita emozioni, non di certo il tono piagnucoloso. La lista delle persone deportate inserita nel mezzo rende il libro instabile perché credo fermamente che togliere una parte delle persone dalla società renda la stessa società instabile. Vi è inoltre l’elenco dei nazisti non processati che nell’edizione croata ho fatto stampare con le pagine che vanno tagliate, in questo modo è lo stesso lettore a processare i colpevoli. Però c’è una cosa con cui voglio concludere: questo libro non racconta solo gli orrori, ha anche momenti di sprizzante felicità”.
Rachel Silvera, twitter @rsilveramoked
(30 gennaio 2015)