Produrre l’odio
Si fa un grande parlare di un abbandono progressivo dell’Europa da parte degli ebrei. I ripetuti atti di antisemitismo, un clima di intolleranza crescente, le manifestazioni di diffusa aggressività ma anche, aggiungono certuni, le crescenti difficoltà economiche, sarebbero alla base di un congedo che se in alcuni paesi è senz’altro tangibile in altri ha dimensioni molto più contenute ma non per questo del tutto trascurabili. Così soprattutto in Francia, che si candida a divenire l’epicentro del disagio. Ancora una volta poiché, come ben sappiamo, non è certo fatto nuovo che proprio nella patria della rivoluzione repubblicana e laica, laddove fu formulato compiutamente il rapporto tra minoranze e maggioranza al di fuori degli schemi di antica servitù, si manifesti questo angosciante fantasma. Al di là dei singoli casi, tuttavia, quello che più in generale rende irrequieti, se non a volte apertamente inquieti, è la percezione di un fenomeno che potrebbe essere in via di maturazione un po’ ovunque. Con intesità diverse ma un comune denominatore. Di certo, comunque dovesse andare, anche nella migliore delle ipotesi, un problema. Un disastro – invece – se dovesse accentuarsi al punto tale da risultare ingestibile. Per gli ebrei ma anche per l’Europa. Poiché la decadenza – in questo caso la fuga – delle minoranze, da sempre, nelle nostre società, precorre il declino morale, civile e politico delle maggioranze, comunque la si voglia mettere. Nel novero dei problemi che porterebbero a tale esito entrano adesso molte cose ma soprattutto una sorta di saldatura, ovvero di combinato disposto, tra i mutamenti degli assetti geopolitici nell’area del Mediterraneo, la crisi delle sovranità nazionali (che sprigiona energie di ogni genere, tra le quali anche tensioni che si trasformano in risentimenti, alla ricerca di un obiettivo controil quale scagliarsi), le molte difficoltà che attraversano il ceto medio continentale, che in questi anni ha visto messo in discussione il proprio ruolo sociale ed economico nonché la diffusione di un habitat virtuale, il web, che mescola atteggiamenti, giudizi e pregiudizi come un frullatore. Tra di essi, e ci torneremo da subito nelle prossime righe, il negazionismo.
Ognuno di questi elementi è di per sé autonomo e non ingenera, aprioristicamente, antisemitismo. Tuttavia, la costellazione che tra di essi si crea, quando si sovrappongono e interagiscono, può essere tale da incentivare l’avversione di natura antisemitica. Peraltro, il razzismo produce di per sé dinamiche totalizzanti, che rispondono all’angoscia da incertezza, soddisfacendo il bisogno di trovare un lenitivo alle paure del momento. Si tratta, infatti, di letture integrate della realtà e delle relazione sociali e politiche, attraverso la proliferazione di “nemici interni” e di nemici etnici sul piano internazionale. È come se si facesse una sorta di “fermo immagine” in una situazione altrimenti in movimento, di cui non si capisce il senso e di cui si temono gli effetti. L’ambizione del razzista, infatti, è di dare un volto ed un nome a ciò che molti percepiscono come una minaccia tanto oppressiva quanto di difficile identificabilità. Il meccanismo che opera nella razzizzazione è quasi sempre il medesimo: si identifica l’alterità (reale o presunta) e la si traduce da subito in alterazione (dell’ordine costituito) mentre si trasforma la differenza (come valore civile e tratto caratteristico della varietà umana) in diffidenza, moneta spicciola nelle relazioni sociali, dove entrano in gioco titubanze, invidie se non paranoie attraverso le quali si costruisce, e si rinforza, una retorica della minacca. Affinché questo trapasso si consumi occorre che dalla generalizzazione di alcuni caratteri (ossia l’ascrizione di essi ad interi gruppi umani) si transiti prima alla connotazione (ovvero l’interpretazione e attribuzione di uno specifico e immodificabile valore ad essi, negativo nel caso dei gruppi ostracizzati), alla loro naturalizzazione (che trasforma tali caratteri in caratteristiche stabili e destoricizzate, trasmesse per via ereditaria) e, infine, alla loro decontestualizzazione (la separazione del tratto cosiddetto “razziale” da quello sociale: l’individuo non è ciò che fa o chi dice di essere ma quanto gli viene attribuito, indipendentemente dalla sua concreta condotta). In questo meccanismo, che storicamente sa trasformarsi in una macchina infernale, la “bassa intensità” dei messaggi sul web produce l’effetto – paradossale e perverso – di renderli socialmente accettabili. Cosa implica quest’ultima affermazione? Che oggi l’antisemitismo si sviluppa sempre più spesso attraverso l’habitat virtuale, dove coesistono, nello stesso tempo e nel medesimo luogo di relazioni a distanza, affermazioni e controaffermazioni, dichiarazioni rispondenti a riscontri e stravaganze di ogni genere e tipo, le une e le altre poste sul medesimo piano e fruite senza alcun filtro razionale, ossia senza una verifica. Il negazionismo che, come andiamo dicendo da tempo, è un prisma del pregiudizio antiebraico, poiché tiene insieme il complottismo – che sta dietro le letture deliranti e paranoiche dei grandi problemi – l’avversione contro gli ebrei mascherata sotto il falso giudizio “storico” e l’antisionismo (quest’ultimo inteso come forma di opposizione strenua all’egemonia ebraica nel mondo), si costituisce come punto di incontro tra discorsi politici altrimenti alternativi, antinomici, ossia quello di destra e ciò che sta a sinistra. Non ci riferiamo al negazionismo ideologico – quello che vanta invece solidi antesignani nel neonazismo – e neanche a quello cosiddetto “tecnico” – che effettua una lettura stravolta delle fonti -, bensì al chicchiericcio universale che attraversa internet e che poi si struttura in un paradigma del pregiudizio: tutto inventato, tutto falso, tutto prodotto di una mistificazione che è cospirazione ebraica. Poiché il negazionismo è una forma moderna di teoria del complotto, che focalizza le angosce contemporanee su un agente ritenuto produttore di malessere e sottoposto a perenne stato d’accusa. Dal popolo d’Israele allo Stato d’Israele, il mutamento dell’obiettivo non muta la natura del rifiuto, che assume una valenza di legittimazione a posteriori del genocidio trascorso e, più in generale, dell’antisemitismo presente. Dal momento in cui, con il secondo dopoguerra, il discorso antisemita tradizionale si è fatto politicamente insostenibile si è venuto sviluppando un discorso pubblico che argomenta l’inaccettabilità del sionismo e, di riflesso, dello Stato d’Israele, intesi l’uno e l’altro come creazioni artificiali, ossia prodotto della cattiva coscienza dell’Occidente.
La progressiva saldatura, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, tra sionismo, colonialismo e razzismo ha quindi permesso di stabilire una sorta di filiazione nobile al suo rigetto. Così l’antisionismo si è accasato in segmenti di una sinistra terzomondista alla ricerca di un oggetto di “lotta” al quale ancorarsi, generandosi come categoria concettuale a sé, del pari al suo essere campo di significati sui quali alcune parti della destra e ulteriori settori della sinistra possono trovare un terreno di convergenza quanto meno occcasionale. In questo quadro diventa agevole per i negazionisti non solo l’affermare che lo sterminio degli ebrei nonabbia mai avuto luogo, potendo semmai rilanciare le accuse nel merito del fatto che tale “menzogna” avrebbe una funzione politica, ovvero legittimare il sionismo e, quindi, ciò che esso comporta in termini di gioco egemonico per parte ebraica. In un ribaltamento perfetto dei ruoli, se il sionismo è una moderna forma di razzismo, le “false vittime” di un “genocidio inesistente” sono, di riflesso, i veri persecutori. Il perno di questo ragionamento si basa sul riscontro che se la Shoah non è alla radice dello Stato d’Israele (benché poi molti negazionisti affermino altrimenti) essa tuttavia gli conferisce un “ritorno” di legittimità morale, una specie di surplus etico. A questo punto, per delegittimare Israele la negazione diventa strategica. È quindi in questo passaggio che due orizzonti ideologici alternativi trovano una comunione. Come aveva avuto modo di riscontrare già alcuni anni fa Georges Bensoussan: «in primo luogo, [si dà] un discorso antisemita e negazionista centrato sul vecchio tema del “complotto ebraico mondiale” e che va scoprendo la portata dell’antisionismo. In secondo luogo, un discorso antisionista e antirazzista centrato sul “complotto sionista mondiale” e che va scoprendo il negazionismo [come suo corredo necessario] e, in certi casi, l’antigiudaismo.Si assiste a un alternarsi di motivi: il punto di arrivo degli uni è il punto di patenza degli altri, ma nelle due figure l’ “ebreo-sionista” finisce per incarnare la figura assoluta del male». Lo Stato d’Israele assurge a piattaforma materiale, ideologica e simbolica del nuovo capitolo di un libro senza fine, quello del dominio ebraico. A destra l’accento batte sulla natura “etnica” dell’ebraismo, al quale, in quanto stirpe, sarebbe consustanziale l’intendimento di soggiogare il pianeta; a sinistra, invece, ci si sofferma sull’aspetto razzista, colonialista e sulla falsità dell’Olocausto in quanto rendita morale indebitamente autoattribuitasi dagli ebrei. Questo perché negare la dimensione, addirittura la realtà di questa storia, diventa la tappa obbligata del rifiuto d’Israele. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la comunità internazionale ha ricostruito le fondamenta delle sue relazioni basandosi sul rifiuto del nazismo, in quanto fenomeno politico non solo moralmente abietto ma socialmente inaccettabile. Tuttavia, come ogni forma di consenso generalizzato, e quindi omogeneizzante, esso richiama e implica molteplici coni d’ombra Per una certa sinistra estrema, pregiudicare questo consenso offre la possibilità di dichiarare la denuncia della natura dell’oppressione presente, celata sotto il falso unanimismo dell’antifascismo democratico, che serve come copertura ideologica al prosieguo delle pratiche di sfruttamento. Si tratta di un discorso che alcune componenti della sinistra bordighiana, sia pure molto borderline, aveva già sviluppato a loro tempo e che continua ad allignare in certi ambienti, trovando nuovo fiato nel web. In una sorta di eco infinita. Da ciò, quindi, l’attacco a quanto può sostenere la legittimità di Israele. Smascherare la “falsità dell’Olocausto” vuol dire denunciare definitivamente l’impostura dello Stato degli ebrei che, a sua volta, sarebbe l’abusivo destinatario di una solidarietà tanto più pericolosa perché rivolta ad un soggetto che è protagonista dell’oppressione attuale. Dall’analisi del suo operato si possono meglio capire forma e natura del dominio capitalistico, secondo gli assertori di questo teorema. Cosa c’entra, allora, quanto ci siamo detti fino a questo momento rispetto al discorso che abbiamo fatto in apertura, quello che rimandava al senso di disagio che attraversa l’ebraismo europeo? Facile dirlo, se si analizza la sequenza che lega antisemitismo ad antisionismo e, quest’ultimo, a negazionismo. Il terzo legittima il secondo e il secondo reintroduce il primo.
Si deve scappare dinanzi a ciò? Non è detto. Anzi, vale semmai la lotta contro quei fantasmi che stanno riprendendo corpo. Ma la questione o viene intesa come problema che interpella immediatamente le democrazie occidentali nel loro insieme, e quindi la loro coesione sociale, che sarebbe altrimenti messa definitivamente in discussione, oppure rischia di essere fraintesa come un problema personale di pochi. Nel qual caso, però, ad essere sconfitti, come già dicevamo, non sarebbero esclusivamente questi ultimi ma l’intera società europea.
Claudio Vercelli
(22 febbraio 2015)