La strada dei diritti
Esattamente un anno fa, il primo aprile del 2014, scrissi su queste colonne degli ospedali psichiatrico giudiziari (OPG), luoghi di detenzione per persone instabili di mente. Sei strutture in tutta Italia per circa 700 persone. Dodici mesi fa il governo prorogò la chiusura di questi “inferni locali” – così li ha definiti lo scrittore Paolo Giordano – perché le regioni non avevano predisposto le residenze sanitarie necessarie ad accogliere i malati. Uno scandalo burocratico e organizzativo sulle spalle di persone maltrattate, umiliate, dimenticate da decenni.
Per fortuna questa indecenza è sul punto di essere emendata. Il 31 marzo prossimo gli OPG saranno definitivamente chiusi, con il passaggio dei detenuti (tali sono oggi) in comunità, case-famiglia, enti di accoglienza. Per i più pericolosi verranno adibite strutture più piccole e sorvegliate ribattezzate Rems. Non che i problemi finiscano qui, intendiamoci: non mancheranno incurie, incidenti, allarmi sociali e disservizi, con il rischio che i disagi siano nascosti in luoghi ancora più invisibili e appartati. Ma è comunque importante sancire un principio di civiltà: queste persone non sono criminali, ma malati, ed è dunque giusto che se ne occupi la sanità pubblica anziché le forze dell’ordine.
Dall’abrogazione della legge Basaglia, quella che chiuse i manicomi criminali, sono passati tanti anni e la strada dei diritti in Italia è ancora impervia, stretta e tortuosa. Ma sbaglieremmo a non cogliere un segnale positivo. Come ha affermato Barack Obama dal ponte di Selma, Alabama, commemorando la marcia per i diritti civili degli afroamericani guidati da Martin Luther King: “Se pensate che nulla sia cambiato nell’ultimo mezzo secolo, chiedete a chiunque sia vissuto a Selma, o a Chicago o a Los Angeles negli anni Cinquanta. Chiedete alle donne dirigenti d’impresa, che allora sarebbero state relegate a mansioni di segretarie, se nulla è cambiato. Chiedete al vostro amico gay, se è più facile vivere la propria sessualità oggi in America rispetto a trent’anni fa. Negare questo progresso – che è il nostro progresso – equivale a negare la nostra capacità d’azione, la nostra responsabilità nel fare ciò che è in nostro potere di fare per migliorare l’America”.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi
(10 marzo 2015)