Partigiani ebrei

anna segre In un modo o nell’altro la mia vita ebraica, la vita delle nostre comunità, è sempre stata accompagnata dalla presenza di partigiani ebrei: nelle festività (con la berachà impartita da Ugo Sacerdote, talvolta l’unico Kohen presente al bet ha-keneset torinese), negli incontri di studio (con le analisi di Silvio Ortona sul libro di Geremia e su altri passi biblici, ricercando tra le vicende di allora i temi di oggi), negli interventi su giornali ebraici, nella memorialistica. Per alcuni di questi partigiani l’identità ebraica è alla base della scelta stessa di partecipare alla Resistenza (penso per esempio ad Augusto Segre, figlio del rabbino di Casale Monferrato e lui stesso studente del Collegio Rabbinico – come racconta nel suo libro Memorie di vita ebraica); altri avrebbero approfondito la propria cultura ebraica solo in anni successivi, ma questo non dimostra necessariamente che per loro essere ebrei non fosse importante. Mi sembrano dunque troppo duri e ingenerosi i termini usati due giorni fa in questa newsletter (“una totale assimilazione culturale e sociale” … “un forte disagio della propria identità”) riferiti alla maggioranza degli ebrei italiani che parteciparono alla Resistenza.
Se due ebrei hanno tre opinioni, 500 partigiani ebrei avranno avuto all’incirca 750 modi diversi di declinare la propria identità ebraica. Per quanto mi riguarda, sono convinta che meritano tutti il nostro rispetto e la nostra gratitudine.

Anna Segre, insegnante

(24 aprile 2015)