Piero Terracina: “L’indifferenza uccide”
“Ignorare la memoria delle violenze perpetrate dal nazismo e dal fascismo significa facilitare la giustificazione delle violenze odierne in nome dello ‘stato di emergenza’, della ‘guerra al terrorismo’ o della ‘crisi economica’ e favorire il silenzio e l’indifferenza verso chi oggi chiede asilo e riparo da ingiustizie e discriminazioni”. Sono parole del Testimone romano della Shoah Piero Terracina, intervenuto al Senato in occasione del convegno “Il peccato nell’indifferenza” organizzato per riflettere su come l’indifferenza non sia una scelta contemplabile. Ieri come oggi, di fronte ad esempio alle ripetute tragedie del mare davanti alle coste italiane. Ad intervenire durante la prestigiosa e partecipata iniziativa anche il presidente del Senato Pietro Grasso, il presidente della commissione diritti Luigi Manconi, il giornalista Gad Lerner e lo storico Alessandro Portelli.
Di seguito pubblichiamo l’intervento integrale di Piero Terracina.
Buon pomeriggio a tutti e grazie per questo invito, per me davvero importante.
Come mi ha scritto il promotore di questa iniziativa il senatore Luigi Manconi nello scambio di corrispondenza epistolare dei giorni scorsi, questo nostro incontro vuole essere una lezione morale. Le mie saranno solo riflessioni, riflessioni morali, insomma quello che faccio ormai da oltre vent’ anni.
Cercherò di fare un parallelo tra migranti di ieri e migranti di oggi, tra violenza di ieri e violenza di oggi, perché credo che la memoria debba servire a questo, a costruire INSIEME una società migliore, in cui vivere e convivere tutti. In pace.
E voglio iniziare da un fatto che non molti conoscono, anche se è stato scritto un bel libro di Sinouè Gilbert, Una nave per l’inferno, edito in Italia nel 2005, che racconta la storia di circa mille ebrei tedeschi — uomini, donne e bambini – che, nel 1939, poterono lasciare, per mare, la Germania di Hitler. S’imbarcarono sulla St. Louis, un transatlantico tedesco, con al comando il capitano Gustav Schróder, diretto a La Havana. La storia della St. Luis era già stata raccontata in un film del 1976.
La nave salpò da Amiburgo il 13 maggio 1939. I suoi viaggiatori, tutti muniti di visto, speravano di soggiornare a Cuba prima di ricevere il permesso d’entrata negli Stati Uniti. Ma né il governo cubano, o statunitense, o canadese e neppure quelli dei diversi paesi dell’America latina accolsero i profughi.
A Cuba era stato stabilito che le persone richiedenti il visto dovevano essere suddivise in due categorie: i turisti e i rifugiati. Ai rifugiati, tra l’altro, era richiesto, per ottenere il visto, un ulteriore pagamento di 500 dollari; cifra davvero notevole allora, che pochi possedevano anche perché si trattava di intere famiglie e la cifra andava moltiplicata per i componenti.
Non si sapeva bene come definire i circa mille ebrei che erano arrivati dalla Germania; per agevolarli, le autorità cercarono di farli passare come turisti; ma anche con questo espediente non ottennero il visto e su mille solamente in 29 riuscirono a sbarcare a Cuba.
E gli altri? I rifugiati non avrebbero potuto entrare legalmente con il visto turistico ottenuto a Cuba negli Stati Uniti, perché non disponevano di un indirizzo a cui fare ritorno, e inoltre gli Stati Uniti dal 1924 si attenevano ad un sistema per l’immigrazione. Le autorità statunitensi cercarono di persuadere Cuba ad accettare i rifugiati; ma non fecero nulla per agevolare il loro arrivo, pur essendo a conoscenza delle condizioni e dei rischi in cui, all’epoca, vivevano gli ebrei in Germania.
Il capitano Gustav Schroder, comandante della nave, era un tedesco non ebreo e anti nazista che fece di tutto per assicurare un trattamento dignitoso ai suoi passeggeri. Volle assicurare servizi religiosi ebraici e ordinò al suo equipaggio di trattare i rifugiati come qualsiasi altro normale passeggero in crociera. Con il precipitare degli eventi il capitano cercò di portare i rifugiati in un posto sicuro, valutando persino di incagliare la nave sulla costa britannica per forzare la Gran Bretagna ad accogliere i passeggeri come naufraghi. Rifutò inoltre di restituire la nave alla Germania sino a che i passeggeri non fossero entrati in qualche altro paese.
La nave fece ritorno in Europa e attraccò ad Anversa, in Belgio. Alcuni rimasero lì; altri, invece, furono accolti in Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Sembrò quindi che essi fossero stati posti in salvo dalle persecuzioni.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’occupazione da parte delle truppe tedesche della Francia, del Belgio e dei Paesi Bassi, purtroppo molti di loro furono deportati dalle SS, soprattutto ad Auschwitz e a Sobibor. Quelli che riuscirono a salvarsi rifugiandosi in Inghilterra o scampando allo sterminio testimoniarono a favore del comandante della nave.
Alla fine della guerra il capitano Schróder fu insignito dell’ Ordine al Merito di Germania. Nel 1993 fu nominato come Giusto tra le nazioni come riconoscimento per il suo eroismo per aver cercato riparo per i suoi passeggeri.
Ora, quale confronto è lecito trai respingimenti e le stragi che accadono sotto i nostri occhi e la persecuzione degli ebrei?
Quale confronto è lecito tra i morti del Mediterraneo e gli ebrei che nel 1939 non furono accolti nè da da Cuba né da altri?
Le situazioni sono, indubbiamente, molto diverse. Ma non voglio occuparmi, in quest’occasione, dell’unicità di Auschwitz. Anzi, vorrei trovare dei punti in comune sulla violenza di oggi e di ieri che meglio ci aiuti a comprendere la natura dell’uomo e, magari, a farci i conti.
Tra quello che io guardo oggi in televisione – dalla mia casa – e quello che io ho vissuto e subito più di 70 anni fa, vedo, pur con tutte le differenze del caso, dei punti in comune. E questi sono l’indifferenza della maggioranza e l’incapacità delle Istituzioni di tutelare il più debole.
E’ la stessa indifferenza di quando furono emanate nel nostro Paese le leggi razziali, che chiamerei razziste. Io allora avevo nove anni. Una mattina andai a scuola e la maestra mi cacciò via. Perché? Chiesi. Perché sei ebreo, mi rispose. Tornai a casa piangendo, disperato. Si può essere disperati a soli nove anni? Io questo lo posso raccontare. La mamma, a noi quattro figli che andavamo tutti a scuola, ci diceva sempre di studiare, ci teneva a farci fare sempre i compiti perché, diceva, per riuscire nella vita dovevamo prima riuscire nello studio. E se non posso studiare che cosa faccio? Mi dissi, temendo che nella vita non avrei potuto combinare niente di buono.
E di tutti quegli amici che avevo a scuola, non se ne vide più uno. Neanche i loro genitori. Pochi anche i vicini di casa. Il fascismo aveva fatto bene la sua propaganda, “Mussolini ha sempre ragione” diceva Ia propaganda, e nessuno, o molto pochi, ci tesero una mano.
Quella stessa indifferenza la ritrovo oggi, anche se in una forma diversa.
Ma voglio essere più preciso. Non si tratta solamente di indifferenza, ma anche di ostilità. Di ignoranza. Di paura del “diverso”. Di disinteresse verso l’altro. E mi viene in mente il monito di Primo Levi “voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”. E continua: “Meditate che questo è stato!”
Considerate voi se questi sono uomini: persone che scappano dalla guerra, dalla malattie, dalla fame, dalle persecuzioni. S’imbarcano, dopo aver pagato i loro “traghettatori” che mi ricordano tanto quelli che dall’Italia “aiutavano” gli ebrei a raggiungere la Svizzera, facendosi pagare lautamente e spesso tradendoli e consegnandoli ai nazi-fascisti come accadde, tra i tanti, a quella straordinaria testimone della Shoah che è Liliana Segre, e iniziano un viaggio in mare drammatico. Che dura giorni. Senza cibo. Con poca acqua e molta paura. Con la probabilità di finire in pasto ai pesci. Chissà che cosa si prova in quelle condizioni! io non lo so;
ma mi vengono in mente i racconti del mio amico-fratello Samuele Modiano che conobbi ad Auschwitz. Io avevo 15 anni, lui 13. Sami, un viaggio lungo e drammatico in mare rinchiuso nella stiva lo fece, perché è nato a Rodi e gli ebrei del Dodecaneso furono deportati per mare. I suoi ricordi sono drammatici. E drammatiche sono le condizioni di questi nuovi “disperati”.
Ma ancora, mi chiedo. Considerate se questo è un uomo… E lo dico rivolto a noi stessi. Le vite degli italiani sono colpite dalla crisi, dai problemi quotidiani, dai lavoro e temono che i figli non abbiano futuro se restano qui.
Ma quanti sono effettivamente toccati da quello che sta accaendo? E quanti si adoperano per dare il proprio contributo? Quando vado nelle scuole, dico sempre
ai ragazzi che, almeno secondo me, libertà vuol dire ragionare con la propria testa e partecipare. Vivere, agire e interagire nel mondo in cui si vive. E quanto stiamo interagendo? Poco. Perché se lo facessimo ci sarebbe davvero quell’incontro di culture che migliora, arricchisce gli uomini. Non mi stancherò mai di ripetere quanto provato scientificamente: “che siamo tutti uguali”. Che il confronto con l’altro, con il cosiddetto “diverso” è un’esperienza necessaria sia per migliorare noi stessi sia per vivere con gli altri.
L’incontro con altre culture porta ad un arricchimento reciproco di idee, di valori e di esperienze.
La storia si ripete e si sono accumulate sotto i nostri occhi le immagini di altri genocidi, altri iager, altri massacri, dalla pulizia etnica in Kosovo, agli eccidi in Ruanda, dall’uso dei gas contro i curdi in Iraq ai respingimenti nel Mediterraneo. Tutto è qui vicino a noi, a volte troppo vicino a noi, per dirci e ricordarci che non sempre la storia insegna a evitare il ripetersi di ciò che è stato, che non basta ricordare il passato. Né si può cedere all’alternativa terribile di ritenere che la Shoah sia destinata a far parte dell’elenco indicibile dei genocidi, tragica eventualità sempre presente nei geni della modernità, impossibile da evitare come una tara che fa parte dell’uomo.
Ignorare la memoria delle violenze perpetrate dal Nazismo e dal Fascismo significa facilitare la giustificazione delle violenze odierne in nome dello “stato di emergenza”, della “guerra al terrorismo” o della “crisi economica” e favorire il silenzio e l’indifferenza verso chi oggi chiede asilo e riparo da ingiustizie e discriminazioni. Ha senso dunque che io prenda la parola su questi temi come persona che è stata in fuga per dare voce a chi è attualmente in fuga. Come ho raccontato vivevo nascosto in una cantina a Monteverde nel periodo dell’occupazione tedesca, prima di essere denunciato dai fascisti italiani, consegnato alle SS e deportato.
A quanto sembra, gli arrivi dal mare di barche di richiedenti asilo non sono un effetto dell’operazione Mare Nostrum. Gli sbarchi sono proseguiti anche nella brutta stagione. Avvenivano prima, sono avvenuti dopo e avvengono ora. Le polemiche, esterne e interne, erano pretestuose. Sono avvenuti nuovi naufragi, la nostra Marina militare, di fronte agli SOS delle barche in pericolo, è intervenuta anche al di là dei limiti territoriali fissati e ha subito attacchi per aver salvato naufraghi al di fuori della zona di competenza. E anche i nostri pescherecci, i cui equipaggi sono tanto più meritevoli, accorrono dove ci sono persone in pericolo. Il nostro Paese sta facendo la sua parte. Ci sta provando. Ma l’Europa? Pochi rispondono al bisogno urgente d’aiuto e collaborazione. Alcuni politici parlano di “tsunami umano”, di esodo biblico, di rapporti dei servizi segreti che annunciano centinaia di migliaia di profughi pronti a partire.
Ora in più c’è l’Isis, che caricherebbe a forza i profughi sulle barche per scagliarli contro l’Italia. Si dice di voler contrastare il traffico di esseri umani, ma in realtà si vogliono scongiurare gli arrivi dei rifugiati. E quando arrivano in Italia come sono accolti? Buttati in campi che tanto somigliano ai lager, certo, senza gli aguzzini e i carnefici. Emarginati. Guardati con disprezzo o, nella migliore delle ipotesi, con pietà. Se fossimo un paese pienamente civile, se la nostra Europa fosse civile, saremmo capaci di comprendere le tragedie che hanno alle spalle e inserirli con intelligenza nella nostra società. Dovremmo aiutarli per far loro mantenere costumi e tradizioni, sempre che non siano in contrasto con i diritti umani e le leggi del nostro Paese. Di non sfruttarli. Di non usarli come forza lavoro a basso prezzo; tra un po’ sarà estate, pensiamo a chi raccoglie i pomodori per pochi euro al giorno. Le autorità hanno il compito di sorvegliare che chi lavora non venga sfruttato con trattamento da schiavi.
In questi giorni si è saputo che qualcuno viene compensato con un euro l’ora per il lavoro nelle campagne e vive di conseguenza in stato di estremo degrado.
Ci lasciamo investire dai pregiudizi e dalle paure: “prendono il nostro lavoro”, “insidiano le nostre donne”, “bevono”, “si drogano”, “rubano”.
Chi di noi non ha mai sentito dire una di queste frasi sugli immigrati? E siamo sicuri che sia vero proprio per tutti? E’ di pochi giorni fa la notizia di un immigrato, senza permesso di soggiorno, che ha salvato una donna che stava annegando nel Tevere, rischiando la sua vita. E un fatto analogo è accaduto venerdì scorso a Firenze, dove un giovane marocchino, anche lui senza permesso di soggiorno, ha salvato una turista che era caduta nell’Arno rischiando, adesso che è stato riconosciuto come clandestino, l’espulsione dall’Italia. E siamo sicuri che gli italiani emigrati qualche decennio fa in Germania e in America non abbiano subito le stesse difficoltà e non abbiano mai avuto comportamenti spesso anche al dì fuori della legalità? Basta pensare alla mafia italiana in America per rendersene conto…
Che cosa si potrebbe fare allora, a patto beninteso di volerlo? Io soluzioni non ne ho, ma credo che bisognerebbe elaborare una vera politica europea: fatta di libertà di movimento per i rifugiati riconosciuti, di costi a carico del bilancio comunitario e di misure di accoglienza e di integrazione il più possibile omogenee.
Inoltre, andrebbe superata una logica emergenziale nella gestione dell’accoglienza. Un giovane rifiigiato ha dichiarato di aver cambiato ventuno strutture da quando è arrivato in Italia. Tra la retorica della paura e quella dell’emergenza, lo spazio per soluzioni sensate non manca.
Torno al quesito di partenza; quale confronto possibile? Il punto è che la Shoah ci parla del nostro passato. Conoscerlo serve al nostro presente e al nostro futuro. La Shoah è stata prodotta dalla nostra “civile” Europa: come ripeto sempre agli studenti delle scuole che mi invitano a testimoniare, i tedeschi non erano mostri.
Neanche tutte le SS. Erano spesso persone colte. Amavano la musica e le arti e magari addormentavano i propri figli raccontando loro una favola. I mostri non esistono. Esistono gli uomini. E’ diverso.
E che cosa fa oggi la nostra “civile” Europa? Addormenta i figli con qualche favola. Ama la musica e le arti. Ma non s’interroga poi troppo se centinaia di persone muoiono annegate in fuga verso la libertà sperando in un futuro migliore.
La Shoah più che la pietà per le vittime o l’odio per i criminali deve ricordarci quanto il male possa essere “banale” da poter essere confuso con una pratica burocratica, con l’obbedienza ad un ordine – e poco conta che l’ordine sia quello di scaricare in un foro lo ziclon B, l’acido prussico utilizzato nelle camere a gas per assassinare nei lager nazisti centinaia di esseri umani in pochi minuti, o di chiudere in un vagone piombato uomini, donne, bambini, con la sete che faceva perdere la ragione, e io questo l’ho provato, o di respingere una bagnarola affollata di migranti.
Allora la Shoah insegna (anzi, io direi IMPONE) di ricordare, ma soprattutto di fare. Non basta andare in pellegrinaggio ad Auschwitz. È necessario informarsi e soprattutto conoscere, e per conoscere bisogna lasciarsi interpellare, senza reprimere un salutare sentimento di vergogna per un sistema che in qualche modo ci appartiene e dal quale non siamo affatto immunizzati. I morti di Lampedusa sono stati ricordati da superstiti e familiari. Lampedusa, l’isola, che da periferia ultima ed estrema è diventata ormai un nuovo centro del mondo.
Educare i giovani, e questo è compito della scuola, al dovere dell’accoglienza ed al rispetto delle minoranze. Mettere al centro la protezione delle persone e non l’ossessione dei confini; fare del soccorso e del salvataggio la priorità delle politiche nazionali ed europee. Ecco, io penso, quello che si potrebbe e dovrebbe fare.
Piero Terracina
(31 maggio 2015)