L’afasia europea
C’è ben poco da aggiungere, alla ridda di parole che sono state dette, in quest’ultima occasione come in quelle precedenti, riguardo alle mortifere manifestazioni del radicalismo islamista. Uno dei problemi, semmai, è proprio questo, ossia che mentre le parole, a partire dalla sequela di condanne, si sprecano i fatti, invece, difettano. I fatti che dovrebbero costituire da argine rispetto a un delirio criminale senza fine, che tuttavia si alimenta da sé nella misura in cui sta creando, alimentando e riproducendo, oramai da molto tempo, un’economia parallela, società disperate e quindi ricattabili, una pseudopolitica fatta di proclami identitari ai quali si accompagna la morte, ovvero la distruzione del debolissimo tessuto democratico nell’Africa mediterranea e nel Medio Oriente, laddove questo già sussisteva o cercava di germogliare. Quindi, a conti fatti, in pochi luoghi e come tali ancora più preziosi. Ecco, lo scenario si fa maggiormente angosciante se si mettono in rapporto questi due aspetti: da una parte c’è la cruda determinazione di organismi che usano la morte per promuovere se stessi così come un progetto politico, tutt’altro che unitario nelle egemonie che vorrebbe imporre ma senz’altro unificato sul piano dei metodi e degli obiettivi; dall’altra c’è una fragilità ricorrente che è quella di chi dovrebbe sapere come dire di no, avendone gli strumenti, e sembra invece aggrapparsi ad una quotidianità fatta di proclami del genere «mai più!» nel mentre pare già essere passato oltre, ad occuparsi di altre cose. Pensando ancora, forse, che “quel” problema sia essenzialmente una questione interna a società diverse dalle nostre, così come “lontane”. Se mai di ciò si trattasse, sarebbe allora bene recedere immediatamente da questa illusione. Poiché il terrorismo islamista è anche un frutto marcio, ma potente, della globalizzazione. Circola come un veleno, a suo agio nelle contraddizioni che non solo paesi fortemente diseguali come quelli mediorientali esprimono già da sé, ma anche, oramai, all’interno dei nostri. È del tutto illusorio pensare che lo si possa relegare a certi luoghi, consegnare a determinati contesti, in un’espressione fermarlo sulla linea dell’uscio di casa. Se cedono quei paesi maghrebini che hanno cercato fino ad oggi di resistere, seguendo quindi il “modello libico”, del cui caos una parte della politica europea ha non poche responsabilità, il rischio molto concreto è che ciò a cui abbiamo di nuovo assistito in questi ultime ore sia solo una premessa di tragedia a venire. In casa nostra.
Claudio Vercelli
(28 giugno 2015)