Ticketless – In memoriam

cavaglion È mancata negli scorsi giorni Eleonora Vincenti, già docente di filologia italiana alle università di Firenze e Torino, figlia di uno dei nostri più grandi germanisti. È mancata a Torino, nella sua bella casa in collina, in mezzo ai suoi libri. Vorrei ricordarla qui per più di una ragione. Intanto per il silenzio che persiste in questi giorni e mi ha sorpreso, ma solo fino a un certo punto. L’Italia è un paese in cui letterati, narratori e critici ‘contineggiano’ (o ‘gaddeggiano’) con voluttà, specie i più giovani, ma nessuno di questi rampanti esegeti si è ricordato che Eleonora Vincenti fino a prova contraria era stata a Firenze allieva amatissima del grande Contini (così come poi, negli anni del suo insegnamento a Torino, sarà vicinissima a Benvenuto Terracini, di cui ci ha lasciato un memorabile profilo). Lo stesso pudore che la Vincenti manifestava per il suo cursus honorum, rifiutandosi sempre di ‘contineggiare’ pur avendone diritto, ritroviamo nell’operosità con cui seguì fin dagli albori il ciclone di iniziative sulla deportazione avviato a Torino dal triestino Bruno Vasari (basta scorrere i volumi della collana bianca dell’Aned per misurare l’impegno di Vincenti). Anni Settanta e Ottanta quando carneadi erano i deportati e la parola Shoah avvolta nel più totale mistero. Oggi qualcuno definirebbe ‘task force’ il gruppetto che di fatto sottrasse all’oblio il tema della deportazione in Italia. Più che di ‘task force’, io, che di quel gruppetto fui per qualche anno umile garzone di bottega, preferirei parlare di allegra brigata. Eleonora metteva a disposizione la sua esperienza di filologa, nell’edizione di testi, diari e memorie; curati da chi, come Lucio Monaco, lavorò a stretto contatto con lei; soprattutto metteva a disposizione la sua tagliente ironia e la sua fenomenale bravura nel correggere le bozze e nel tradurre i testi dei relatori tedeschi. Ricordo con commozione una cena in cui Eleonora fece da interprete a Hermann Langbein, presente Primo Levi. Peccato non aver conservato nessun appunto di quella conversazione, ma egualmente dolce, in queste ore tristi, è il ricordo di una sua frase, “Non farlo mai più”, rivolta con affetto materno al giovane di bottega di cui sopra, che incautamente aveva dato una sbirciatina a un giro di bozze a lei destinato, segnalando a matita qualche piccolissima osservazione a margine.

Alberto Cavaglion

(15 luglio 2015)