Lo sgambetto e le giravolte
Hanno fatto il giro del web le immagini di una video-operatrice, Petra Laszlo, di origine ungherese, legata al partito estremista Jobbik, che riprende i convulsi tafferugli, ma sarebbe meglio parlare di drammatico impatto umano, tra migranti e polizia al confine tra la Serbia e l’Ungheria, una delle zone di transito per i profughi mediorientali.
Si tratta di una scena disperante, dove i primi cercano di sfuggire ai secondi, mentre polvere e zolle di fango ed erba sobbalzano insieme ai corpi. La Laszlo è stata ripetutamente immortalata mentre prendeva a calci i civili e, soprattutto, nell’atto di creare un evento nell’evento, ossia il registrare con perizia la caduta di un uomo, con un bambino in braccio, durante l’inseguimento di un poliziotto.
Piccolo particolare, noto oramai a tutti: la caduta non era accidentale ma il risultato dello sgambetto fatto dalla stessa operatrice ai danni della persona in fuga. Ne è seguito sdegno e ludibrio, a partire dal web, oramai cassa di risonanza del vero e del falso, le due cose molto spesso mischiate insieme. Al riguardo, interessante la reazione circolata su alcuni siti. Ad esempio, c’è chi ha scritto quanto segue: «A proposito della stracagna ungherese filmata mentre prende a calci e sgambetta i profughi siriani… che tutti immediatamente hanno additato come vicina ad ambienti di “destra”, nessuno, in realtà, ha specificato quanto segue: Petra Laszlo, l’autrice di questa vergognosa azione è in realtà un’ebrea! E come tale odia i musulmani e li tratta esattamente come i suoi correligionari trattano i palestinesi in Palestina! State accorti e dubitate di tutto!».
Per poi aggiungere, chiosando: «Non è facile sapere dove sta la verità, ma non sarebbe la prima volta che ebrei potenti agiscano ai danni di loro correligionari appartenenti alle classi popolari. Tipico è l’esempio dei sionisti che si sono arricchiti durante la seconda guerra mondiale mandando a morire milioni di ebrei sotto il regime nazista». Su un altro sito, tra la miriade di commenti, quello per cui: «She too must be a zionist satanic jew from poland and IsraHELL…..they are the only ones capable of this henious [Sic!] crime ….as they target innocents especially children». La dinamica patologica, di taglio antisemitico, nel rapporto tra vittime e carnefici, per la quale le prime vengono immedesimate e identificate con i secondi, è puntualmente all’opera. Ancora una volta. Tanto più da parte di persone che provengono da paesi che non sempre hanno fatto i conti con il proprio passato. L’Ungheria di Viktor Orbán ne è, tra gli altri, parte a pieno titolo. O da quelle stesse regioni del mondo, a partire dal Medio Oriente, che si sono candidate a ‘produrre’ a ripetizione donne e uomini in fuga.
Detto questo, va aggiunto che ci sono gli attivisti per i diritti civili (ed il fatto che con il trascorrere del tempo certe associazioni si siano trasformate anche in holding dei buoni sentimenti nulla toglie alla natura intrinsecamente genuina di chi crede che la tutela del diritto proprio riposi in quelli altrui) e gli attivisti della prevaricazione. La signora Petra Laszlo (parrebbe abbia poi detto: «Io non sono razzista. Sono loro che sono migranti», (ma non avendo il riscontro della fonte è quindi bene assumere la frase con beneficio di verifica) si sta conquistando indiscutibili meriti nel secondo campo. In tutta probabilità intercettando consapevolmente la disposizione d’animo delle forze politiche al governo nel suo Paese.
Si è candidata a divenire l’icona di una Europa (!?) circondata non solo di muri, fili spinati, divieti e vincoli ma, soprattutto, di angosce e paure, ansie e deprivazioni. E che le deprivazioni divengano, a stretto giro – tanto più se incontrano qualche formazione politica disposta a dare ad esse brutale forma e feroce rappresentanza – a pieno titolo depravazioni, è fatto che storicamente sta dietro l’angolo ogniqualvolta quella cosa che chiamiamo ‘crisi’ non riesca a trovare risposte condivisibili e ragionevoli. Ovvero, soprattutto risorse per fare fronte ai mutamenti,repentini ma anche cumulativi, che i processi sociali inducono, con effetti spesso di ricaduta a pioggia su incolpevoli destinatari. Se le persone sono abbandonate a sé – che si tratti di profughi, fuggitivi, esuli ma anche migranti, così come delle stesse popolazioni autoctone, le quali si vedono cadere tra capo e collo la pressione di estranei che si aggiungono e poi si sommano ad un territorio già in se stesso sotto stress economico e sociale – prima o poi arriverà qualcuno a livellare brutalmente tutto (e tutti). Rispondendo autoritariamente laddove l’autorevolezza si è già da tempo svaporata. E con essa quel senso di responsabilità che non è una virtù morale ma essenzialmente un’indispensabile qualità politica. Un problema fondamentale sollevato e innescato dalle migrazioni di massa non è quello della risposta ideologica (accettare o rifiutare in base alla disposizione d’animo e, soprattutto, alla precettistica di taglio pseudopolitico) bensì degli spazi di contrattazione e di mediazione tra quello che già c’è e ciò che invece viene ad aggiungersi. Spazi che non sono tanto luoghi fisici quanto capacità di governare i processi in atto mettendo intelligenze, competenze ma anche e soprattutto indirizzando risorse in una logica prospettica e non solo di successione di ‘emergenze’. Spazi mentali, quindi. Le fantasie sulle “riforme a costo zero”, i “saldi invariati”, le “imprese che si fanno da sé”, come se ogni cosa potesse magicamente generarsi dal nulla e non invece da un investimento di qualsivoglia genere, ma comunque orientato ad un chiaro obiettivo, sono solo la pietosa finzione che copre l’indifferenza dei pochi, beneficiati dalle condizioni di fatto, rispetto al declassamento dei molti (che siano insider o outsider poco importa: nelle serre e nei cantieri lo sfruttamento della manodopera è indifferente al colore dei prestatori della medesima). Il tutto ricoperto della melassa sentimentaloide delle “buone intenzioni” e delle immedesimazioni da un ‘attimino’, vivamente sollecitata da un circuito massmediale che, in non pochi casi, lucra sul soprassalto emotivo generato dal carpe diem, quell’attimo magico di empatia, superato il quale tutto torna come prima. Le migrazioni in massa sono state molto spesso rielaborate come ‘invasioni’. Ma le civiltà sono comunque andate avanti così, piaccia o meno. In genere è fatto che non piace ai tanti, che vedono chiaramente i costi da sostenere, impegno al quale sono chiamati, ma non eventuali ricavi. Tuttavia i processi sociali collettivi si impongono nella loro oggettività anche sui più recalcitranti. Piaccia o meno, per l’appunto. Evitando le geremiadi sui buonismi così come il ricorso ad un antirazzismo di maniera, due modi reciproci, ancorché inversi, di auto-ingannarsi. Finché la finzione dura.
Claudio Vercelli
(13 settembre 2015)