Trilussa e il gatto

Francesco Moisés Bassano“Ciavevo un gatto e lo chiamavo Ajò; / ma, dato ch’era un nome un po’ giudio, / agnedi da un prefetto amico mio / po’ domannaje se potevo o no: / volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. / Bisognerà studià — disse er prefetto — / la vera provenienza de la madre… / Dico: — La madre è un’àngora, ma er padre / era siamese e bazzicava er Ghetto; / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo a casa der Curato. / Se veramente ciai ‘ste prove in mano, / me rispose l’amico — se fa presto. / La posizzione è chiara.:— E detto questo / firmò una carta e me lo fece ariano. / Però — me disse — pe’ tranquillità, / è forse mejo che lo chiami Ajà.”
Questa poesia di Trilussa (Carlo Alberto Salustri 1871-1950), dal titolo “L’Affare de la razza”, era tanto cara a mio nonno Z”l forse anche perché ha come soggetto un gatto – da sempre animale onnipresente nella nostra famiglia -. Fu scritta nel 1940 e mette in mostra con ironia l’idiozia delle leggi razziste del 1938 e dell’invenzione della razza cosiddetta ariana. Come ricorda Mario Avagliano nel libro Di pura razza ariana (Baldini & Castoldi, 2013) venne pubblicata da alcuni fogli clandestini degli antifascisti all’estero, tra cui la “Voce d’Italia” del 1 Giugno 1941. Trilussa più che un antifascista si definiva un non fascista, eppure anche la satira e l’uso del dialetto romanesco all’interno di un regime omologante e totalizzante come il fascismo, possono considerarsi in qualche modo una sorta di resistenza. Proprio perché queste forme riescono più di altre ad evidenziare il ridicolo e il grottesco insiti nel potere e nella sua apparente normalità.

Francesco Moises Bassano

(1 gennaio 2016)