Je Suis Paris – Il pretesto della blasfemia
La redazione di Charlie Hebdo era ritenuta “colpevole” di aver offeso il Profeta con le sue vignette, colpevole di un delitto da punire con la morte. Alla fine del 2005, in Danimarca, uno scrittore di libri per bambini che voleva pubblicare un libro su Maometto e sull’Islam scoprì con stupore che ogni illustrazione del Profeta era proibita. Non è davvero così, ma fu in questi termini che ne parlò con la redazione culturale del giornale Jyllands Posten, la quale fece scoppiare il caso sottolineando solo un aspetto del problema, ossia quello della limitazione della libertà di espressione. Anche in seguito alle reazioni della pubblica opinione il giornale decise di commissionare le famose vignette, per sfidare quella che considerava l’intolleranza dell’Islam.
Con l’effetto – non pienamente previsto – di scatenare proteste vibrate nel mondo musulmano. Vibrate e violente. Quelle caricature, che si inserivano in un dibattito interno al mondo danese sul tema dell’auto-censura nei media, erano accompagnate da un testo che sosteneva come i danesi non osassero più confrontarsi con gli immigrati musulmani presenti nel paese. Era una discussione politica legata alla situazione interna, che è continuata, e il caso delle vignette ha avuto l’effetto di radicalizzare le opinioni su significato e importanza della libertà di stampa. I giornalisti danesi oggi sono più consapevoli delle implicazioni di tale diritto costituzionale. E lo sono sia che abbiano sostenuto la pubblicazione delle vignette incriminate sia che fossero contrari. La stampa danese le vignette le ha poi ripubblicate nel 2008, come reazione alla scoperta di un complotto che mirava a uccidere uno degli autori. Sono stati vari gli attentati collegati con le “vignette blasfeme pubblicate in Danimarca”. E sono morte diverse persone.
Sono passati quasi dieci anni e dopo l’attentato a Charlie Hebdo, dopo che la redazione di un giornale satirico è stata decimata, si è ripresentato lo stesso problema: pubblicare o non pubblicare le loro “vignette blasfeme”? La copertina del primo numero dopo l’attentato mostra un’immagine di Maometto in lacrime che regge un cartello con la scritta “Je suis Charlie” e il titolo “Tutto è perdonato”. Molti giornali – come i francesi Libération e Le Monde e la tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung – hanno pubblicato l’immagine nella sua totalità. Nel Regno Unito il Guardian ha mostrato la copertina “in quanto ha valore di notizia, e merita di essere pubblicata”. Negli Stati Uniti Washington Post, Usa Today e Wall Street Journal hanno mostrato l’illustrazione, ma il New York Times non lo ha fatto. Il problema, poi, non riguardava solo la nuova copertina, ma anche le vignette “colpevoli” di aver scatenato la furia dei terroristi. Le testate che hanno deciso di non pubblicare le vignette di Charlie Hebdo sono state criticate ferocemente per le loro scelte, nonostante la difesa più frequente sostenesse che era importante non essere visti come disseminatori di contenuti che alcuni lettori potrebbero trovare offensivi. Il Guardian per esempio ha sostenuto la sua posizione con un editoriale in cui si leggeva, tra altre cose: “Il punto cruciale è questo: sostenere l’inalienabile diritto di un giornale di fare le proprie decisioni editoriali non si traduce automaticamente nell’amplificare quelle decisioni: difendere il diritto di qualcuno a dire quello che preferisce, non obbliga a ripetere le sue parole”.
Il problema, però, sorge nel momento stesso in cui si evoca la “blasfemia” come causa di un’azione terrorista. Come spiega Alberto Melloni nel testo che introduce il volume Blasfemia, diritti e libertà. Una discussione dopo le stragi di Parigi (ed. Il Mulino) a cura dello stesso Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni, senza in alcun modo voler avallare le uccisioni in molti hanno ritenuto che inquadrarle in una logica di azione-reazione permettesse di capire qualcosa in più. E non sono pochi quelli che hanno pensato che Charlie Hebdo veramente praticasse la blasfemia, rendendo quindi non giustificabile ma “comprensibile” una reazione non espressa per le normali vie giudiziarie – a cui era peraltro abituata, la redazione del settimanale satirico – ma che ha portato a un massacro. Molti però hanno invece espresso la convinzione che un crimine di blasfemia fosse stato consumato, ma nel senso opposto: a essere stata blasfema era l’invocazione di Dio da parte degli assassini. Il fanatismo e la motivazione “religiosa” che parrebbe essere all’origine degli attentati del 13 novembre non si sottraggono al medesimo duplice ragionamento. Nel caso delle vignette il problema sarebbe il superamento di quel limite che in teoria potrebbe e per alcuni dovrebbe separare l’ironia dalla blasfemia, in nome della libertà d’espressione. Nel caso più recente invece si arriva al paradosso di individuare come “blasfema”, e quindi da punire, una società secolare e pluralista. Quella stessa società che oltre a credere nella libertà d’espressione e nella gioia di vivere aveva identificato nella “satira blasfema” un valore per la laicità dello stato. Ma una tale satira spingendo il fondamentalista a “uscire allo scoperto” permette di individuarlo e di collocarlo al di fuori dalla società civile.
In Francia, inoltre, va ricordato che la manifestazione stessa della propria appartenenza religiosa in uno spazio pubblico è percepita come una minaccia alla laicità dello stato. E che si tratti di un velo, di portare la kippà o sfoggiare una croce al collo, o in alcuni casi anche solo di indossare una gonna lunga, si rischia di scontrarsi con i principi della “Charte de la laïcité” firmata dal ministro Vincent Peillon nel 2013. Con il risultato che la proibizione di manifestare “ostensibilmente” nelle scuole un’appartenenza religiosa implica elevare la laicità a principio uguale o superiore alla libertà di manifestare la propria fede. E fanatismo, fondamentalismo, blasfemia, amore per la libertà, libertà d’espressione, odio per la libertà altrui, antisemitismo, concetti che emergevano nei discorsi del gennaio scorso, sono ricomparsi con forza durante tutto un anno punteggiato di episodi di intolleranza di varia gravità, e sono tornati prepotentemente alla ribalta in novembre.
Parigi triste, deserta, disperata; frontiere che si chiudono; diffidenza, paura e il ritorno di un linguaggio che inquieta nei suoi molteplici accenti xenofobi; il sospetto nei confronti di ognuno e di ogni cosa. Paiono essere questi, oggi, i temi dominanti della vita quotidiana. Con una estrema semplificazione si potrebbe dire che la ragione erano alcune vignette satiriche, prima, e un eccesso distorto di fede, ora. Sono ovviamente in realtà molteplici e ben più complesse le possibili motivazioni di quanto accaduto. Ma occorre porsi un’altra domanda, a cui il già citato libro del Mulino cerca di rispondere. Esiste un diritto a non essere offesi? Prova a rispondere lo stesso Melloni: “Se la società pluralista può esigere dalle fedi di accettare l’irrisione, foss’anche greve, perché lo spazio pubblico è per definizione il luogo nel quale non può formarsi un diritto a non essere ‘offesi’ come limite della libertà di espressione, è altrettanto chiaro che lo stesso tipo di espressione ha un significato diverso se è enunciata da una maggioranza contro una minoranza o da una minoranza contro una maggioranza (la satira, ad esempio, rivendica il suo diritto come espressione della minoranza degli irriverenti, per definizione), se è la voce del violento o la voce dell’inerme, se esprime il punto di vista dei perpetratori di un crimine o delle loro vittime, o dei discendenti degli uni e degli altri.”
Va tenuto in considerazione anche il fatto che la recente “crisi dei migranti” pur se non numericamente così imponente come certa informazione tende a far credere sicuramente è destinata a spostare gli equilibri europei anche dal punto di vista dell’identità religiosa dei suoi cittadini, rendendo di fatto improrogabile una discussione sulla costruzione stessa dello spazio pubblico, uno spazio che deve avere caratteristiche condivise e condivisibili. Non si tratta di costruire a tavolino una sorta di par condicio interreligiosa che tenga conto delle reciproche sensibilità e permetta di bilanciare offese e libertà, ma di riflettere insieme sulla definizione e sulla costruzione di valori comuni e di un equilibrio che permetta a ognuno di sentirsi rispettato e di rispettare l’altro, e che non faccia sentire nessuno estraneo.
Non sono necessariamente le identità religiose, le fedi, a doversi far carico di un processo da cui di- pende almeno parzialmente il futuro dell’Europa, ma di sicuro è stato importante il gesto di alcuni imam e dei rappresentanti della comunità ebraica francese che insieme, due giorni dopo gli attentati multipli che hanno scosso Parigi, si sono trovati davanti al Bataclan e insieme hanno voluto cantare la Marsigliese. Con loro si trovava anche lo scrittore francese di origini ebraico-polacche Marek Halter, che ha pubblicato quest’anno un libro dal titolo significativo: Réconciliez-vous! (Éditions Robert Laffont). Occorre ricordare anche le parole di un altro grande autore, un fumettista che ben rappresenta l’identità multipla di un continente. Il francese Joann Sfar, di origini ebraico-algerine da parte di padre ed ebraico-ucraine da parte di madre, ha pubblicato da poco un libro, intitolato Si Dieu existe (uscito in edizione italiana per Lizard-Rizzoli i primi giorni di gennaio) in cui compare un personaggio simile al protagonista della fortunata serie Le chat du rabbin. E in una tavola indimenticabile il gatto dice “Si Dieu existe, il ne tue pas pour un dessin”.
Ada Treves twitter @atrevesmoked – Pagine Ebraiche dicembre 2015
(8 gennaio 2016)