Vedere e prevenire
Da tempo in Francia, una delle patrie elettive nel reclutamento dei terroristi islamisti, si va discutendo della plausibilità di impedire l’accesso collettivo ai siti che ne enfatizzano le gesta, compiendo inoltre opera di indottrinamento verso il pubblico. La rilevanza strategica della comunicazione online nella formazione dei Foreign Fighters, oltre alla più generale azione di contatto e interconnessione nel sistema a rete che il terrorismo alimenta, è di per sé una questione indiscutibile. Quindi sul tavolo della politica e non solo di essa. Già il 22 marzo 2012, dopo la morte di Mohamed Merah, il terrorista islamista responsabile dell’assassinio a Montauban e a Tolosa di tre bambini ebrei, di un loro insegnante e di tre militari, l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, all’interno di un pacchetto di misure di emergenza contro la criminalità politica, aveva dichiarato che si andava profilando una nuova ipotesi di reato, il delitto di consultazione reiterata di siti apologeti del terrorismo. Così si era infatti espresso: «toute personne qui consultera de manière habituelle des sites internet qui font l’apologie du terrorisme ou qui appellent à la haine et à la violence sera punie pénalement». Rafforzando il concetto aveva inoltre ribadito che «la propagation et l’apologie d’idéologies extrémistes seront réprimées par un délit figurant au code pénal, avec les moyens qui sont déjà ceux de la lutte antiterroriste». Parimenti, denunciando del tutto correttamente il fatto che le prigioni fossero diventate uno dei terreni prediletti dai reclutatori, Sarkozy aveva comunque invitato i francesi a non procedere in facili e sempliciste assimilazioni, ossia evitando «aucun amalgame», insistendo infine sul fatto che «nos compatriotes musulmans n’ont rien à voir avec les motivations folles d’un terroriste». La delicatezza della situazione francese (ma il Belgio di lì a non molto si sarebbe incaricato di presentarsi come un paese ancora più problematico) non gli sfuggiva, anche se nella percezione del pubblico rischiava di fare più che altro un esercizio di equilibrismo. Già quattro anni fa le reazioni non si erano comunque fatte attendere, incontrando infatti molte opposizioni all’ipotesi di procedere penalmente contro i frequentatori dei siti jihadisti. Le perplessità, e ancora di più la circospezione di principio, avevano raccolto quindi un seguito diffuso. Tra le autorità, a partire dalla magistratura (impegnata in prima linea al riguardo), tralasciando gli scenari apocalittici e le discutibili suggestioni di una società fatta di controlli ossessivi, in puro stile “Grande Fratello”, una delle obiezioni più sensate era stata quella che osservava il fatto che: «toutes les personnes arrêtées depuis 2007 l’ont été grâce aux imprudences commises sur Internet, à la communication électronique. Si nous les empêchons de surfer, nous aurons plus de mal à détecter leurs agissements». In parole povere: monitorando i siti e le navigazioni delle persone sospette se ne erano ricostruiti non solo i movimenti ma anche i legami, concorrendo alla prevenzione quanto meno di una parte dei delitti. Se così non fosse stato, affermavano i magistrati e una parte delle stesse forze di sicurezza, ne sarebbe derivato uno scenario ben peggiore di quello che già da tempo purtroppo conosciamo. Il web, infatti, ha un grado di implicita visibilità che costituisce una sorta di reciproco inverso, per quanto spesso inconsapevole, dell’anonimato al quale una parte degli incauti internauti si affidano, credendo di non essere tracciabili e di non lasciare eccessivamente segni tangibili. Dopo di che, ne era comunque seguito un progetto di legge, licenziato nell’aprile di quell’anno, relativo al «rafforzamento della repressione del terrorismo». La nuova ipotesi di delitto figurava all’articolo due della disposizione legislativa, laddove si chiedeva di modificare l’articolo 421 del codice penale della Repubblica francese con la disposizione integrativa per la quale: «est puni de deux ans d’emprisonnement et 30.000 euros d’amende le fait de consulter de façon habituelle un service de communication au public en ligne mettant à disposition des messages, soit provoquant directement à des actes de terrorisme, soit faisant l’apologie de ces actes lorsque, à cette fin, ces messages comportent des images montrant la commission d’actes de terrorisme consistant en des atteintes volontaires à la vie». Subito dopo, cautelativamente, si statuiva tuttavia che: «le présent article n’est pas applicable lorsque la consultation résulte de l’exercice normal d’une profession ayant pour objet d’informer le public, intervient dans le cadre de recherches scientifiques ou est réalisée afin de servir de preuve en justice». Una discriminante, quest’ultima, tanto necessaria quanto di non facile applicabilità, all’atto concreto. La discussione, già di per sé, vivace, si era ancora di più animata. Internet, notavano i critici della proposta di legge, può armare gli spiriti ma non è di per sé l’arma con la quale si commettono i reati. Non di meno, qual era (e rimane) la discriminante tra lettura di un testo di per sé ripugnate, eventuale reato d’opinione e commissione di un delitto materiale contro la persona? Poiché, ed è bene ricordarlo, il dispositivo di legge proposto quattro anni fa non perseguiva chi metteva in rete siti jihadisti ma chi li avesse consultati «abitualmente», in tutta plausibilità per scopi eversivi o comunque di lesione dei diritti e dell’integrità fisica altrui. Il fuoco era dato non dal visionare del materiale criminale ma dalla continuità e persistenza temporale nel farlo, intesi come indice di propensione al delitto. Il Consiglio di Stato francese aveva poi riscontrato che perseguire penalmente la sola visione reiterata, «alors même que la personne concernée n’aurait commis ou tenté de commettre aucun acte pouvant laisser présumer qu’elle aurait cédé à cette incitation [au terrorisme]», poteva costituire un vincolo intollerabile alla libertà di comunicazione tra cittadini e organismi democratici. Fatto «qui ne [pourrait] être regardée comme nécessaire, proportionnée et adaptée» agli obiettivi di una efficace lotta contro il terrorismo. Il disegno di legge rischiava infine di non passare il vaglio della giurisprudenza abituale del Consiglio costituzionale francese e della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo. Nulla di fatto, quindi. Il governo successivo, con Manuel Valls nella veste di ministro dell’Interno, dopo che alla presidenza repubblicana era subentrato François Hollande, si era impegnato a discutere e a fare licenziare un progetto di legge accelerato sulla «sicurezza e la lotta contro il terrorismo». L’opposizione, costituita in questo caso da una dozzina di senatori dell’Ump, l’Union pour un mouvement populaire, aveva ripresentato l’articolo a suo tempo voluto da Sarkozy. La risposta della maggioranza era stata che l’impostazione di fondo, prima ancora che difettare sul piano delle garanzie alle libertà collettive ed individuali, risultava inutile rispetto alle effettive occorrenze, tecniche, d’indagine e di repressione, nella lotta al terrorismo. Una successiva proposta di legge, di pochi mesi dopo, voluta dai deputati sarkozisti Eric Ciotti, Philippe Goujon, Guillaume Larrivé e Olivier Marleix, per «rinforzare la lotta contro l’apologia del terrorismo su Internet» rilanciava tuttavia l’impostazione originaria. Il 12 giugno 2013 tuttavia, la proposta veniva bocciata dall’Assemblea nazionale francese. L’adozione, nel novembre dell’anno successivo, della legge voluta dal ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, introduceva non la fattispecie del reato di consultazione abituale ma il rimando rafforzato alla peculiare rilevanza penale dell’incitamento e dell’apologia al terrorismo. Nicolas Sarkozy, del suo, sosteneva peraltro che ci si dovesse confrontare con un fenomeno in sé inedito, i «Jihadwatchers», gli “osservatori” (evidentemente nel senso di sostenitori) del Jihad in rete. A sostegno della sua posizione sottolineava che «quand on consulte des images de jihadistes, on est un jihadiste, à moins de démontrer qu’on fait des recherches». L’onere della prova, in questo caso, veniva ribaltato, essendo in immediato ascritta, a chi avesse frequentato dei siti di tale genere, una responsabilità per così dire oggettiva. Le vicende politiche successive hanno visto la quasi totalità del gruppo dell’Ump al Senato francese riproporre la necessità si sanzionare penalmente la consultazione abituale dei siti. Il ministro della Giustizia ha opposto a tale impostazione la vaghezza dei suoi contenuti mentre il relatore di un nuovo testo di legge antiterrorista, il socialista Pascal Popelin, ha obiettato che nel caso in cui la richiesta fosse passata, «sur le plan constitutionnel, une telle incrimination pourrait être en contradiction avec le principe de la nécessité des délits et des peines». Come attenuante, i proponenti si appellano alla «buona fede» («de bonne foi») di chi dovesse navigare in siti jihadisti senza volerne applicare i precetti contenutivi ma solo per capire e, prevedibilmente, meglio contrastarne i deliri. Sul come dimostrare tale condizione, separandola dall’intenzionalità delittuosa, tuttavia, la confusione di idee si è rivelata sovrana. In realtà il vero punto critico, dinanzi alla veloce evoluzione (e alle non poche involuzioni), del quadro generale, sia per quanto riguarda il ricorso alle tecnologie elettroniche e dell’informazione nella creazione di network jihadisti sia alla pervasività dei messaggi eversivi, è il nesso tra il ruolo di internet nel consolidamento dei percorsi di radicalizzazione e la fragilità degli strumenti legislativi (ed operativi) a disposizione per contrastare simili derive. Di certo il web è un “facilitatore” dell’estremismo. Da più punti di vista, non solo per i reseaux criminali. L’estrema propensione a radicalizzare il confronto verbale, soprattutto nei social network – fatto che di per sé non costituisce per chi lo pratica un indice di propensione alla criminalità ma abbatte certe autocensure e il senso del limite – si incontra con l’estrema mobilità delle comunicazioni, la loro capacità di adattarsi alle mutevoli condizioni, anche quando intervengono disposizioni restrittive di natura amministrativa, giuridica o giudiziaria. In Francia, già nel 2014, al blocco dei profili e dei contenuti jihadisti su Facebook si è contrapposto, per parte degli apologeti della violenza, il ricorso a Twitter. La tecnica del mirroring, il rispecchiamento e la riproduzione dei contenuti vietati attraverso lo spostamento da una piattaforma all’altra, rischia poi di trasformarsi nel gioco infinito del gatto con il topo. Il deputato dei Repubblicani (partito politico fondato da Sarkozy nel 2015, come successore dell’Ump) Xavier Bertrand ha spesso evocato l’allegoria dell’«imam Google», rafforzando il concetto con il rimando al fatto che: «vous avez parlé des moquées tout à l’heure mais il y a l’imam Google. Un certain nombre de jeunes aujourd’hui, avant même d’aller dans les mosquées, c’est sur internet qu’ils trouvent les moyens de se radicaliser». Dopo i tragici attacchi a Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher, il ministro dell’Interno Cazeneuve aveva peraltro ribadito che, a suo dire, la quasi totalità di coloro che girano intorno al terrorismo frequentano internet, stabilendo un nesso diretto, ed univoco, tra il secondo ed il primo. Se le cose stanno per davvero in questi termini, allora, cosa fare? Il contrasto telematico, informatico non meno che culturale ed anche repressivo della radicalizzazione è un tema senz’altro aperto, e come tale non può né deve essere evitato. Tuttavia, non può né deve neanche risolversi con la semplice e illusoria invocazioni di censure inesorabilmente imbelli, che servirebbero più a fare occasionalmente la voce grossa che non ad altro. Con il rischio supplementare, tra l’altro, di enfatizzare la seduttiva oscenità politica di cui il jihadismo mena vanto nei confronti di quanti ne colgono positivamente gli echi. Se qualcosa va vietato (nel senso di stabilire consensualmente una soglia comune, superata la quale subentra la sanzione collettiva poiché chi la viola è entrato nell’area della inaccettabilità), tanto più in una società che si vuole liberale e democratica, bisogna avere la certezza che il veto funzioni per davvero, isolando i pesci dal bacino d’acqua nel quale si muovono. Non si tratta – quindi – esclusivamente di una questione tecnica, rimandando semmai alla cultura politica e alle prassi istituzionali con le quali si intende operare un contrasto sistematico nei confronti della viralizzazione di certe forme pervasive di identificazione e mobilitazione radicalizzante. Si tratta peraltro di una questione continentale, da affrontare ancora una volta non solo attraverso il ricorso alle legislazioni nazionali, laddove si scelga di seguire questa prassi, ma coinvolgendo le istituzioni comunitarie. Un tema, anche questo, che tuttavia nessuna forza politica europea pare al momento in grado di formulare, riducendo semmai la politica a mera “tecnica” di gestione dell’esistente, nel mentre questo, invece, cambia sotto i nostri stessi occhi, sfuggendo ad ogni tipo di inquadramento e, soprattutto, di mediazione.
Claudio Vercelli
(3 aprile 2016)