La morte come messaggio
In genere funziona quasi sempre così: al clamore procurato dagli attentati si avvicenda un periodo, più o meno lungo, nel corso del quale l’azione dei movimenti jihadisti non occupa la scena né, tanto meno, raccoglie l’attenzione mediatica e, in immediato riflesso, dell’opinione pubblica. In realtà, è proprio in ragione del ripetersi di queste fasi di interregno, segnate ai loro estremi dalle violenze terroristiche maggiormente eclatanti, che l’analisi si rende ancora più necessaria. Non si tratta di stasi delle organizzazioni che mettono a segno gli eventi peggiori, gli atti più trucidi, ma di calcolata assenza dal proscenio occidentale. Nei luoghi delle guerre civili che hanno scatenato, infatti, continuano invece ad imperversare come non mai, martoriando le popolazioni civili, a partire da quelle cristiane. Più che raccontarci delle loro strategie d’attacco il silenzio che ci accompagna testimonia quindi della sostanziale incapacità, per parte nostra, di andare oltre il clamore del momento. Più che indifferenza parrebbe di avere a che fare con un meccanismo diffuso di rimozione. Anche per questo rischiamo, in tale modo, di fare il loro gioco, limitandoci ad esecrare gli atti maggiormente brutali quando essi si verificano ai nostri danni ma difettando di una risposta collettiva che, invece, non può essere solo affidata agli organi dello Stato tradizionalmente preposti alla prevenzione e alla repressione. La prevenzione, dinanzi ad un fenomeno come quello del radicalismo islamista, rimanda al bisogno di riuscire a fare a meno della paura così come alla necessità di non ridursi al sentimentalismo delle facili identificazioni. La mobilitazione, al riguardo, o si manifesta come costante e ripetuta oppure si ridurrà esclusivamente all’emozione di un momento. Non possono vincerci militarmente, non possono imporci la loro volontà ma potrebbero sfiancarci politicamente, giocando sulle ripetute contraddittorietà che l’Europa esprime oramai in una sorta di sequenza ininterrotta. Il radicalismo islamista in una quindicina d’anni ha infatti conosciuto una profonda trasformazione. Dal secondo attacco terroristico alle Twin Towers, quello dell’11 settembre 2001 (il primo risale al 26 febbraio 1993, anche se non sono in molti a ricordarsene: all’epoca fu fatta esplodere un furgone, in un parcheggio sotterraneo, che conteneva ben seicentottanta chili di miscela di gas idrogeno e nitrato di urea) in poi le gerarchie, gli ordini di priorità, gli stessi protagonisti e gli scenari sono mutati. Non cambia la matrice di fondo, che coniuga violenza sistematica a istituzione di un’egemonia sulla galassia dei diversi gruppi che si muovono nel senso di una “rivoluzione islamica”, ma si trasformano contesti e attori. Il primo fattore da computare è il declino relativo (ossia la perdita di potere contrattuale nell’area mediorientale), di al-Qaeda. Il 2011 ha segnato irrimediabilmente questa evoluzione, sia per la morte di Osama Bin Laden sia, soprattutto, per il nascere, l’estendersi e lo svilupparsi delle “primavere arabe”. Della scomposizione dei regimi politici autoritari, se non autocratici, che è derivata dagli effetti politicamente non mediati dei tumulti di popolo e piazza, se ne sono avvantaggiati prevalentemente i nuovi gruppi terroristici. Facendo un passo indietro, tuttavia, vanno computati anche le scelte delle amministrazioni statunitensi, dopo la guerra del 2003, l’erronea attribuzione di credito incondizionato al governo settario presieduto dall’iracheno Nuri al-Maliki, il successivo disimpegno americano e il collassamento siriano. Si tratta di una catena di eventi, tra di loro in parte correlati ma che vivono, malgrado tutto, anche di luce propria. Sta di fatto che la loro somma ha concorso a creare condizioni positive per il progetto di cui l’autonominatosi “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi è divenuto un protagonista quasi esclusivo. Le discontinuità rispetto ai criteri che al-Qaeda professa sono peraltro molteplici. Riguardano la progettualità, le strumentazioni e il livello rigorosamente operativo. Più in generale, è la strategia complessiva a risultare diversa. Se il Daesh parte, del pari all’insieme di gruppi e gruppuscoli che si rifanno all’eredità di Osama Bin Laden, da un’ottica “anti-sovranista” (“nostra patria è il mondo intero”, per così dire), e se l’obiettivo è la restaurazione di un califfato, un regime politico a base shariatica che dovrebbe precedere la formazione di una sorta di Umma universale, un’unica comunità di credenti su base planetaria, per il primo i tempi sono assai più contratti di quelli professati dai secondi. Non a caso al-Qaeda non ha proclamato la nascita di qualcosa, semmai indicando i nemici da colpire (attraverso l’oramai classico richiamo alla “guerra santa” contro gli “infedeli, gli apostati, i crociati e gli ebrei-sionisti”) mentre la prima cosa che il cosiddetto Stato islamico si è incaricato di celebrare è la nascita di una entità statuale. Quasi a volere dire che, nella sua effimera costituzione e durata, il possesso di una terra sulla quale esercitare una qualche forma di giurisdizione è un elemento dirimente. Non di meno, se la variabile spaziale per Daesh è fondamentale, mentre per al-Qaeda lo spazio è quello globale delle comunicazioni e del reclutamento, per il primo conta anche il tempo: gli adepti di al-Baghdadi sono affannati dal bisogno di vedere confermato, da subito, in maniera tangibile, il loro progetto di califfato. Il presente è il vero tempo sul quale il nuovo radicalismo islamista gioca una parte delle sue carte, a volere dire che c’è già un “qui ed ora” sul quale puntare incondizionatamente. Mentre dalla crisi iraniana, nell’oramai lontano 1978, con la sua soluzione attraverso la creazione di una repubblica islamica, così come da quelle libanese e algerina prima, cecena e bosniaca poi, il terrorismo di matrice fondamentalista ha pensato molto a se stesso come ad una società network, in grado di muoversi e di spostare i suoi uomini in quanto pedine del “Jihad globale”, Daesh si deve ora muovere calpestando costantemente la terra sotto i suoi piedi. Un altro fattore di trasformazione è quello legato alla creazione di coalizioni tra entità diverse. Tradizionalmente, il radicalismo islamista si è articolato in una pluralità di gruppi, a volte in competizione tra di loro per il controllo delle medesime risorse. Per al-Qaeda la contrapposizione poteva stemperarsi in rapporti di reciprocità con le altre componenti dell’opposizione siro-irachena. Semmai la questione aperta era quella della costruzione, nel corso del tempo, di un’egemonia ideologica e politica. Per lo Stato islamico, invece, la frattura si consuma non solo con i nemici dichiarati ma anche con quanti, pur essendo su una lunghezza d’onda simile alla propria, non sono disposti a subordinarsi immediatamente ai voleri del gruppo fedele al “califfo”. Fatto che ha alimentato lotte intestine e reso più onerosa l’unificazione del controllo dei territori sottratti ai poteri legali, suddivisi in una pluralità di gruppi a volte cooperanti, altre volte concorrenti. In questo rapporto di contiguità che si trasforma in competizione, al-Baghdadi e i suoi uomini hanno giocato pesantemente la carta della guerra mediatica, cercando di spostare il baricentro dell’attenzione collettiva, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà operativa sui campi di battaglia, nei luoghi della formazione dell’immaginario collettivo. La ferocia esibita e rivendicata spudoratamente è parte di questa “webjihad”, funzionale non solo a pubblicizzare il proprio operato, a raccogliere adesioni e militanze per via telematica ma anche a tenere sotto scacco i “concorrenti”, alzando sempre di più l’asticella della brutalità, in una sorta di rincorsa senza fine. Non di meno, questo genere di azione azzera anche alcune precedenti distinzioni. È un autentico musulmano, secondo Daesh, chi aderisce al suo messaggio, il quale costituirebbe un superamento di tutto quanto è stato detto fino al momento della “rivelazione” del califfato. Se la reinvenzione della tradizione è un aspetto fondamentale nell’ideologia jihadista, a partire dallo stesso tracciato wahhabita e salafita, con al-Baghdadi l’accentuazione si è tradotta in una sorta di anno zero del residuo discorso teologico, sostituito da un’ideologia della rivalsa e dell’annientamento. Anche da ciò, quindi, è derivato, con la nascita della sua organizzazione, un netto irrigidimento verso la popolazione civile locale, quasi tutta di origine musulmana, un’accentuazione dell’aggressività verso i gruppi omologhi, una semplificazione ulteriore dei messaggi veicolati soprattutto attraverso il sistema della comunicazione informatica: si è tanto più sinceramente instradati verso il percorso della “verità” (intesa come un’autentica rivelazione, sulla scorta di quella maomettana) quanto si accetta la logica dettata dalla centrale Daesh, dove l’azione di sopraffazione armata è il vero fulcro dell’intero messaggio. Il modello che viene proposto è quello dell’azione imitativa, sulla quale si fonda la logica del “martirio”: si ascende ad un grado superiore di purezza interiore non solo dedicandosi incondizionatamente alla realizzazione della missione politica ma traducendola in una sorta di totalitarismo mortifero, a volere quasi lasciare intendere che la via della realizzazione sta nell’estinzione dell’esistenza. Di quella altrui, prima di tutto, ma anche di quella propria.
Claudio Vercelli
(10 aprile 2016)