Bibi e i generali
Gli israeliani sono grandi soldati per necessità, non per militarismo. Sono pochi, circondati da nemici implacabili, basta un annuncio alla radio perché uomini e donne corrano al fronte, magari in autostop. L’ex capo di stato maggiore, l’archeologo Yigal Yadin, diceva che “in Israele un civile è un soldato con undici mesi di congedo”. La linea che separa militari e civili è da sempre sottile. C’è chi ha definito Israele “la moderna Sparta”, altri, meno benevoli, “la piccola Prussia mediorientale”. Per la posizione geografica, Israele non può affrontare una guerra di posizione e di logoramento, deve vincere subito. Deve quindi avere un esercito che vigila sempre alle spalle della leadership politica. È quindi motivo di allarme quanto ha scritto Ronen Bergman dalle colonne del New York Times, parlando di “guerra fra la destra israeliana (il governo, ndr) e i suoi soldati e spie moderati”. Nella maggior parte dei paesi, la classe politica supervisiona l’establishment della difesa e la controlla nelle sue intemperanze. In Israele appare piuttosto il contrario. La settimana scorsa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha nominato ministro della Difesa Avigdor Lieberman, un civile, “l’ultimo atto della guerra tra Netanyahu e i leader militari e di intelligence”, scrive Bergman. Tutto inizia il 24 marzo: Elor Azaria, un sergente israeliano, a Hebron spara e uccide un terrorista palestinese che giaceva ferito a terra dopo che aveva accoltellato uno dei compagni del sergente. L’esercito condanna l’uccisione e mette a processo il militare. I politici di destra vanno a difesa di Azaria e Netanyahu telefona al padre del soldato per offrire il suo supporto. I generali israeliani leggono la telefonata come una sfida alla loro autorità. Il vice capo di stato maggiore, il generale Yair Golan, sceglie una delle date più sensibili del calendario di Israele, la giornata del ricordo della Shoah, per contrattaccare. E suggerisce una somiglianza fra l’Israele di oggi e la Germania del 1930. Netanyahu replica a muso duro che le parole del generale Golan, che chiederà poi scusa, “sminuiscono l’Olocausto”. Il ministro della difesa Yaalon, un ex capo dell’esercito, si schiera a difesa del generale. Il primo ministro convoca Yaalon e lo sostituisce con Lieberman. Nei corridoi del potere israeliano si dice che Yaalon sia pronto a tentare di prendere le redini del Likud una volta tramontata la stella di Netanyahu. E certa stampa già si domanda: “Yaalon sarà il nuovo Ariel Sharon?”. Vecchia storia la guerra fra Bibi e i generali. Yoram Peri ci ha scritto un libro, “Generals in the cabinet room”: “Nella visione di Netanyahu, l’élite dell’esercito è parte del blocco egemonico, che lui, da rappresentante del blocco controegemonico, vede come un nemico”. Il maggior generale Oren Schachor ha detto che “Netanyahu e i suoi chiamano i generali ‘servi della sinistra’”. L’immigrato moldavo Lieberman e l’ex ambasciatore in America Netanyahu hanno scalzato dal potere non soltanto la sinistra, ma anche la vecchia guardia del Likud. Quando Netanyahu ha vinto le primarie del partito nel 1992 ha ricompensato Lieberman mettendolo a capo dell’apparato. Adesso la nomina di Lieberman a ministro della Difesa è il tentativo di prendere d’assalto l’ultimo bastione della vecchia élite israeliana con cui Netanyahu litigò fin dagli anni Novanta: l’esercito era a favore degli accordi di Oslo, Bibi fermamente contrario. Avigdor Lieberman è quanto di più lontano dal linguaggio e dalla visione dei precedenti ministri della Difesa e dell’esercito. Hamas? “Dobbiamo fare come Putin in Cecenia”. L’Iran? “Come la Germania nazista”. Il processo di pace? “Parole senza senso”. A differenza dei generali, Lieberman non ama i giornalisti, non ammicca, non blandisce l’opinione pubblica. A chi gli parla della necessità di liberare mille terroristi, Lieberman risponde che andrebbero portati nel Mar Morto con degli autobus e lì affogati. Ha definito “un cadavere” il leader palestinese Abu Mazen, difeso invece dall’esercito. Ripete che la pace si dà in cambio di altra pace e non in cambio di terra perché è immorale. Nel periodo che precede le elezioni del 1999, un folto gruppo di generali in pensione si raccoglie intorno alla figura di Ehud Barak per orchestrare quello che passerà alla storia come il “putsch democratico” contro Netanyahu allora al suo primo mandato, reo di aver appena intimato ai generali di “cambiare disco” sui palestinesi (nei giorni scorsi Ehud Barak è riapparso in televisione, sfoggiando una inedita barba, per mettere in guardia Israele dal “fascismo” incalzante). Nel 1997 il principale contendente di Netanyahu alla guida del Likud era sempre un militare, Yitzhak Mordechai, e Bibi venne sfidato anche dal suo ex capo di stato maggiore, Amnon Lipkin-Shahak, che avrebbe poi regalato la vittoria a Barak fondando un partitino di centro che rubò voti a Netanyahu. Un altro ex capo di stato maggiore israeliano, Dan Halutz, ha aderito al partito di opposizione Kadima, mentre il generale Amram Mitzna è stato in lizza per la leadership laburista, dopo aver definito Netanyahu “pericoloso per Israele”. Oggi sono di nuovo due ex generali, Gabi Ashkenazi e Benny Gantz, la carta segreta della sinistra per defenestrare politicamente Netanyahu. O per dirla con Haaretz: “L’ex generale è la miglior speranza per cacciare Netanyahu”. C’è persino una legge, fatta apposta per i generali e voluta dalla sinistra, per ridurre da tre anni a sei mesi il periodo di congedo che un militare deve prendersi dall’esercito prima di scendere in politica. E mentre Netanyahu volava a Washington per denunciare l’accordo nucleare fra Stati Uniti e Iran, un gruppo chiamato “Comandanti per la sicurezza di Israele”, composto da 180 generali in pensione ed ex funzionari, tra cui tre ex capi di Mossad, denunciava il primo ministro. “L’attuale politica costituisce una distruzione dell’alleanza con gli Stati Uniti”, ripeteva il generale in pensione Amnon Reshef, eroe della Guerra del Kippur, che ha co-fondato il gruppo. “E’ il peggior manager che abbia avuto”, ha dichiarato di Netanyahu Meir Dagan, l’ex direttore del Mossad che nel febbraio di un anno fa ha apertamente fatto campagna elettorale contro il primo ministro: “Ho smesso di lavorare con lui perché ero semplicemente stufo”. Netanyahu si sta scontrando su molte questione di sicurezza con i propri generali, dalle proposte per migliorare le condizioni per i palestinesi in Cisgiordania (il primo ministro si oppone) alle accuse che il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas incita al terrorismo (lo Shin Bet dice che aiuta a combatterlo) alla proposta di Netanyahu di espellere le famiglie dei terroristi (i servizi segreti sono contrari). Sia lo Shin Bet sia il Mossad si opposero anche alla campagna militare contro Hamas a Gaza nel 2014. Yuval Diskin, l’ex capo dei servizi di sicurezza (Shin Bet), è oggi uno dei più loquaci avversari di Netanyahu. Diskin ha detto che Netanyahu rappresenta una minaccia per il paese. Tra i capi dello Shin Bet e il primo ministro scorre cattivo sangue fin dall’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995. Allora Carmi Gillon, che comandava i servizi durante l’attentato, dichiarò che la destra di Netanyahu era indirettamente responsabile dell’uccisione del premier laburista. L’ex capo del Mossad, Ephraim Halevy, avrebbe detto invece che gli ebrei ortodossi, alleati al governo di Netanyahu, costituiscono una minaccia ben più grande per Israele del programma nucleare iraniano. Il suo successore, Meir Dagan, ha poi orchestrato la più imponente campagna pubblica contro il proprio governo su come disarmare Teheran. In un giorno imprecisato del 2010, Netanyahu, assieme al ministro della Difesa Ehud Barak, ordina all’esercito il livello “P+”: prepararsi all’attacco alle centrali atomiche iraniane. I leak dall’ufficio di membri del governo avrebbero poi indicato che l’attacco venne sventato per l’opposizione dei capi della sicurezza, compreso Diskin. Barak ha confermato il rapporto alla televisione israeliana: “Al momento della verità, la risposta fu che non erano in grado”, ha scandito Barak. L’esercito e i servizi non hanno mai perdonato a Netanyahu di averli fatti apparire come inetti. Ambienti vicini a Netanyahu dicono che Diskin è soltanto frustrato per non aver ottenuto la guida del Mossad. Nei cinquant’anni di vita dello stato ebraico ci sono stati 121 generali di brigata che sono divenuti ministri. E di oltre tredici capi di stato maggiore, almeno dieci sono entrati in politica. Il ministero della Difesa è sempre andato ai generali – come Moshe Dayan, Sharon, Shaul Mofaz, Yitzhak Mordechai – o a individui con un background nella sicurezza – come Shimon Peres, Moshe Arens, Benjamin Ben-Eliezer e Yitzhak Shamir. La nomina di Lieberman da parte di Netanyahu non ha precedenti (è completamente estraneo alla vita militare). Gli ultimi sei capi del servizio segreto sono inoltre tutti politicamente impegnati contro Netanyahu. A cominciare da Yaakov Peri, che ha servito lo Shin Bet dal 1988 al 1995 (oggi Peri milita nel partito di Yair Lapid). Nel 2003, in piena Intifada, molti di questi ex capi dei servizi segreti pubblicarono un appello sui quotidiani contro la “catastrofe” delle politica di Ariel Sharon. L’ex presidente e fondatore dell’aviazione, Ezer Weizmann, li accusò senza giri di parole di aver gettato disonore sul paese. Netanyahu non avrebbe saputo dirlo meglio. I generali avversi a Bibi non sono soltanto i beniamini dei media e della sinistra. Anche per l’Amministrazione Obama, che non ha mai fatto mistero di avere in odio Netanyahu, il vertice della sicurezza di Israele è un governo alternativo. Questa è la lezione che si ricava da un articolo pubblicato su Foreign Affairs da David Makovsky, un membro della squadra di negoziato del segretario di stato John Kerry durante il suo processo di pace fallito due anni fa. “Considerando il vuoto diplomatico nella politica israeliana”, ha scritto Makovsky, “l’esercito israeliano ha lavorato per affermarsi come guardiano dei valori democratici e di stabilizzatore dell’arena israelo-palestinese”. Bret Stephens, Premio Pulitzer del Wall Street Journal, difende invece Netanyahu dal nuovo putsch in fieri dei generali. “I leader militari e i funzionari della sicurezza sono alla sinistra del loro pubblico e della loro leadership civile” scrive Stephens. “E’ l’establishment della sicurezza di Israele, guidato da ex ufficiali, come Yitzhak Rabin e Ehud Barak, che ha portato gli israeliani lungo il sanguinoso cul-de-sac chiamato ‘processo di pace’. Se il loro parere non è più considerato come sacrosanto è un segno di maturità politica di Israele. Chi crede che Israele deve rimanere una democrazia non ha altra scelta che prendere le difese di Netanyahu”. C’è chi ricorda il clima del giugno del 1967, quando l’allora primo ministro Levi Eshkol aspettava il sostegno americano per quella che sarebbe diventata “la guerra dei Sei giorni”, mentre eserciti arabi si ammassavano ai confini di Israele e gli alti papaveri dell’esercito dicevano che andare in guerra era meno pericoloso che non andare. Mentre il paese agonizzava in un’attesa snervante, l’allora maggiore generale Ariel Sharon cercò di persuadere il suo superiore Yitzhak Rabin di tentare un colpo di stato. Sharon in seguito avrebbe candidamente ricordato il discorso che voleva fare ai politici in carica: “Ascoltate, voi ministri, le vostre decisioni mettono in pericolo lo stato di Israele, e dal momento che la situazione ha raggiunto un punto critico, vi chiediamo gentilmente di andare nella stanza accanto e aspettare lì”. Ma allora i ruoli erano invertiti: erano i politici le colombe e i generali erano i falchi; oggi, invece, i generali paiono dei pacifisti incalliti. Invertito anche il sentimento della popolazione: allora, i capi dell’esercito erano considerati cavalieri bianchi intoccabili; oggi sono visti con sospetto, tacciati di slealtà verso il loro primo ministro eletto e con mire politiche evidenti. Inoltre, la loro ricetta di ritiro unilaterale e di dialogo con la pistola alla testa è stata a dir poco disastrosa per Israele.
Giulio Meotti, Il Foglio, 4 giugno 2016