Discriminazione e violenza
Ieri, ultimo giorno di scuola, abbiamo portato gli allievi del ginnasio a vedere il film Race, Il colore della vittoria, la storia dell’atleta nero americano Jesse Owens che conquistò quattro medaglie d’oro alle olimpiadi di Berlino del 1936. Il film è ben costruito e corre piacevolmente verso il suo immancabile lieto fine, e nella logica della storia l’esclusione dalla staffetta dei due atleti ebrei passa quasi in secondo piano (spero di non aver rovinato la visione a nessuno rivelando fatti che sono comunque abbastanza noti). Eppure quell’esclusione, e ancora di più l’indifferenza che la circonda e la rende possibile, è in un certo senso un’anticipazione della Shoah. Esco dunque dal film con una sensazione di amaro in bocca, moltiplicata dalle orribili notizie che arrivano da Tel Aviv. Ma tra i miei colleghi e allievi, nella gioia generale per l’inizio delle vacanze, la notizia dell’attentato pare essersi perduta, non essere stata recepita da nessuno. Del resto i telegiornali e i giornali radio italiani ne hanno parlato poco o nulla.
In realtà il lieto fine del film non è lietissimo neppure per il protagonista, che tornato in patria continua a subire discriminazioni. Probabilmente negli Stati Uniti degli anni ’30 gli ebrei stavano decisamente meglio. E anche in Germania fino a pochi anni prima non stavano male, così come non stavano male Mordechai sulla porta del palazzo del re Assuero e Giuseppe vice faraone. E allora mi viene un dubbio: non sarà proprio questo l’aspetto più insidioso e potenzialmente pericoloso dell’antisemitismo? Il fatto che gli ebrei difficilmente vengano percepiti come vittime, come categoria debole? Può sembrare paradossale, ma in effetti è stato così molto spesso nel corso della storia. Una minoranza povera, discriminata e perseguitata sviluppa anticorpi, e soprattutto li sviluppa la società in cui queste discriminazioni avvengono (o se non altro una sua parte). Una minoranza benestante e ben integrata suscita forse (non è detto) meno ostilità, ma anche meno compassione e soprattutto meno campanelli di allarme. Poi quando si scatena la violenza tutti cadono dalle nuvole e mostrano sconcerto, salvo dimenticarsene poco dopo. Infatti, se la distrazione per l’attentato di Tel Aviv potrebbe forse avere altre ragioni (un Medio Oriente percepito come lontano e incomprensibile), non possiamo dimenticare la scarsa attenzione dei media per gli attentati antisemiti che hanno funestato l’Europa negli ultimi anni.
A pensarci bene esiste un’altra categoria di persone (non si può definirla una minoranza) che è integrata ancora più degli ebrei, occupando qualunque gradino – anche i più alti – della scala sociale: le donne. E anche in questo caso la discriminazione, proprio perché sottile, non è percepita ed è spesso gravemente sottovalutata. E anche contro le donne (la cronaca ce lo dimostra continuamente) la mancanza o l’insufficienza dei campanelli d’allarme permette esplosioni di violenza che – dopo un fugace periodo di indignazione generale – saranno presto e troppo facilmente dimenticate.
Anna Segre, insegnante
(10 giugno 2016)