Quando la guerra si fa social
Il 30 giugno scorso un terrorista palestinese si è introdotto nella casa della famiglia Ariel, nell’insediamento di Kiryat Arba, in Cisgiordania. È entrato nella camera da letto di una delle figlie degli Ariel, Hallel, di soli 13 anni, e l’ha accoltellata a morte. Prima di compiere questo efferato crimine, il terrorista, proveniente dal villaggio di Bani Na’im (8 chilometri da Hebron), ha scritto su Facebook di pianificare di “suicidarsi o essere ucciso compiendo un attentato” perché era suo diritto farlo. Si tratta di uno dei tanti casi di attentatori palestinesi che negli scorsi mesi hanno usato i social network come macabro testamento per poi compiere attacchi terroristici contro civili o soldati israeliani. Hallel è stata la trentacinquesima vittima israeliana di questa ondata di violenza iniziata nell’ottobre scorso che ha visto molti attacchi dei cosiddetti “lupi solitari”: terroristi più o meno improvvisati, non direttamente legati a organizzazioni terroristiche, sui cui profili social spesso capeggiavano post in cui piangevano parenti uccisi mentre aggredivano israeliani e post o simili che invocavano il martirio. Da qui l’accusa mossa in particolare a Facebook da alcuni membri del governo israeliano, secondo cui il social network non fa abbastanza per bloccare i profili di chi sulla sua piattaforma istiga all’odio e a compiere attacchi terroristici. Il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan ha dichiarato che Facebook e il suo fondatore, Mark Zuckerberg, dovrebbero prendersi la responsabilità dei contenuti che appaiono sul social network e lavorare con le autorità israeliane per frenare la violenza e rintracciare le persone che istigano all’uccisione di innocenti. Erdan, in un’intervista alla televisione israeliana, ha dichiarato che la società di Palo Alto si rifiuta di consegnare gli indirizzi IP o informazioni in grado di identificare i palestinesi che vivono in Cisgiordania, dicendo che l’area non è sotto la giurisdizione israeliana (come il terrorista di Kiryat Arba, diversi attentatori palestinesi provengono dall’area di Hebron, in Cisgiordania appunto). Secondo il ministro, su 74 richieste fatte negli ultimi mesi per la cancellazione di pagine o post considerati problematici, solo 23 sono state accolte dalla società americana con la conseguente rimozione dei contenuti. Se Facebook ha algoritmi in grado di indirizzare la pubblicità sui profili delle persone in base ai contenuti che pubblicano, allora perché non può monitorare e rimuovere i contenuti negativi, l’interrogativo posto da Erdan, che si è spinto fino ad accusare Zuckerberg di essere corresponsabile degli attentati, definendolo un “mostro” con “le mani sporche di sangue”.
Il braccio di ferro si è poi inasprito con la proposta di Erdan, formulata assieme al ministro della Giustizia Ayelet Shaked, di introdurre una legge che permetta a Israele di presentare ai propri tribunali petizioni per ordinare a Facebook – o ad altri social media o provider – di rimuovere entro 24 ore “i contenuti illeciti che mettono in sostanziale pericolo la sicurezza dello Stato, della popolazione o dei singoli privati”. “Facebook lavora regolarmente con gli enti di sicurezza e i responsabili politici di tutto il mondo, inclusa Israele, per garantire che le persone sappiano come fare un uso sicuro della piattaforma”, la risposta al Washington Post del gigante di Palo Alto, rispetto alla battaglia politica avviata in Israele. Intanto negli Stati Uniti, alcune famiglie di vittime di attentati in Israele e Cisgiordania, tra cui quella di Hallel, hanno fatto causa a Facebook per un un miliardo di dollari, “per aver fornito deliberatamente servizi al gruppo palestinese di Hamas”, nonostante sia nella lista delle organizzazioni terroristiche d’Israele e Stati Uniti. Secondo gli analisti, difficilmente l’istanza verrà accolta visto che negli Usa c’è una legge che protegge i social network da casi simili: Dafne Keller, dello Standford Center for internet and society, ha spiegato a Bloomberg che la normativa americana non prevede la responsabilità legale dei social network rispetto a quanto pubblicato dai propri utenti. Altrimenti, sottolineava Keller, “per le società sarebbe incredibilmente costoso e al contempo controproducente mettere a disposizione una piattaforma gratuita. Inoltre li porterebbe a cancellare anche post perfettamente legittimi per evitare di correre rischi”. Facebook, come dichiarato al Washington Post, ha affermato di dialogare con tutti i governi. Ai primi di luglio, poi, diverse pagine e profili di esponenti di Hamas sono stati cancellati. “È la prova che possono farlo, se vogliono”, ha dichiarato Nitsana Darshan-Leitner, a capo di Shurat Hadin, ong di destra impegnata tra le altre cose a portare avanti azioni legali contro i terroristi. “Condanno Facebook per aver chiuso per la settima volta il mio account”, il commento invece di Ezzat al-Rishq, uno dei membri di Hamas a cui è stato cancellato il profilo, e che ha accusato la società americana di essere dalla parte di Israele.
Rispetto alle dure parole di Erdan, la collega Shaked ha deciso di adottare un tono più conciliante nei confronti di Facebook, sostenendo che la legge proposta sarà attuata solo in casi “estremi”. Per il ministro della Giustizia poi il coordinamento di Israele con Facebook è buono e, in generale, la società ha rimosso il 50% dei post denunciati. Ma il progetto di legge Shaked-Erdan, su cui da Palo Alto non sono arrivate reazioni ufficiali, preoccupa alcuni esperti tra cui Tehila Shwartz Altshuler, dell’Israel Democracy Institute. A suo dire costringere le compagnie internazionali a condividere le proprie informazioni con gli Stati potrebbe creare un precedente pericoloso. Parlando con il Times of Israel, la studiosa ha affermato che la norma proposta alla Knesset potrebbe compromettere la privacy e la libertà di parola. Il paradosso della nostra privacy, afferma, è che ci affidiamo a società di raccolta di informazioni a livello mondiale ma vogliamo che queste rimangano distinte dagli Stati. Ovvero, una legge ideata per contrastare il terrorismo, potrebbe aprire più porte sulle vite degli utenti di quanto necessario.
(24 luglio 2016)