La traduzione alla prova del nome
“Che il parlare di Yafet”, cioè la lingua greca, “dimori nelle tende di Sem”, cioè nell’ebraico. Come un auspicio alla traduzione in greco dei testi sacri ebraici, il Talmud Babilonese (trattato Meghillà 8b-9b) reinterpreta – traduce? – la benedizione, “il Signore faccia crescere Yafet e dimori nelle tende di Shem”, che in Genesi IX, 27, Noè rivolge ai figli Yafet e Sem i quali hanno avuto la delicatezza di coprire la sua nudità camminando a ritroso, a differenza del fratello Canaan che di fronte ad essa non ha provato vergogna. In ebraico il verbo “far crescere” [yaft] ha radice simile a quella della parola “bello” [yafè], presente anche nello stesso nome “Yafet”– tipica metodologia ermeneutica usata dai maestri talmudici, quella di mettere in connessione significati diversi sulla base di minuscole analogie –. Perché dunque, tra i tanti figli di Yafet, i maestri talmudici scelgono proprio il greco? Perché, rispondono essi stessi, “il greco è quanto c’è di più bello nella discendenza di Yafet”, che dunque “dimori nelle tende di Sem”. Bello è il greco, commenta Emmanuel Levinas in una sua lezione su questi passi talmudici (La traduzione della scrittura, in Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000, pp.39-62), ma in generale in tutta la sua opera filosofica da lui stesso intesa come “una traduzione in greco del Talmud”, perché è la lingua “dell’ordine, della chiarezza, del metodo, dell’attenzione dal più semplice al più complesso, dell’intellegibilità e soprattutto della non prevenzione”, “della decifrazione e demistificazione”, “la scuola del parlare paziente” propria del pensiero critico, scientifico ed etico, sempre pronto a “dirsi e disdirsi” per amore della verità e della giustizia. Levinas, che in altri testi è estremamente severo nei confronti della cultura ellenistica, qui forza il testo talmudico, fino a interpretare la legittimità di tradurre i testi sacri in greco (e, secondo Rabbi Simon ben Gamliel, solo in greco si possono tradurre) addirittura come una “prova necessaria” a cui i testi sacri si devono sottoporre per rivelare l’universalità e modernità della loro antichissima singolarità. A riprova di ciò, Levinas sottolinea il modo in cui, nello stesso brano talmudico che stiamo commentando, è riportata la leggendaria storia della traduzione in greco del Pentateuco, per iniziativa del re Tolomeo d’Egitto, nel II secolo a.e.v.: i settantadue anziani incaricati, senza comunicare l’uno con l’altro, avrebbero non solo tradotto allo stesso modo, ma anche apportato identiche correzioni alla lettera del testo. Questo evento miracoloso sarebbe il segno dell’approvazione divina della traduzione in greco del Pentateuco.
Nei testi talmudici non esiste però mai un pensiero unico e definitivo. I maestri hanno posizioni diverse, discutono, litigano tra loro, a volte persino i giudizi di una stessa persona sembrano contraddittori. Ogni idea, seppur di minoranza è ricordata e tramandata, accanto al “nome proprio” di chi l’ha enunciata per primo. E il “nome proprio” – primo fra tutti il Nome innominabile dell’Eterno – è un concetto fondamentale della “filosofia della singolarità ebraica” di Levinas: è quella specificità, unicità, inviolabile, inalienabile, irrappresentabile, indicibile che fonda l’etica della responsabilità. La trascendenza che nell’ebraismo resta non solo tra l’Eterno e l’uomo ma anche orizzontalmente tra me e l’altro, la santità come spazio di separazione, rispetto, comandamento “tu non ucciderai”. È ciò che Canaan, nel guardare il corpo nudo del padre, ha già violato. Il nome proprio è l’intimità, il pudore, il limite di ciò che – per tornare al nostro tema – non può essere valicato, tradotto.
La traduzione può sì “abbellire” il testo, ma – ci avvertono i maestri talmudici – può anche denudarlo fino a dissacrarlo, facendogli perdere l’attitudine a “rendere impure le mani”: così l’idioletto talmudico chiama la santità di un testo. Un testo rende impure le mani, se – come spiega Levinas – non permette “di impadronirsi di un pensiero nelle lettere come da una mano che afferra un oggetto” in modo frettoloso, strumentale, prepotente, “non si lascia toccare da una mano che resta nuda”, “senza preparazione, senza maestro”, senza la mediazione della tradizione e la precauzione di un metodo interpretativo (come lo sguardo senza coperture di Caanan). E così nel nostro testo talmudico non esiste una Teoria della traduzione. Non vi è teoria nell’ebraismo che non debba collaudarsi con la pratica, l’esperienza, i contesti, le trasformazioni, esigenze ed emergenze specifiche della storia. In questo testo in particolar modo, troviamo una pluralità vorticosa di posizioni che, come spiega bene Levinas, “significano altrettante maniere di intendere il rapporto del giudaismo con le culture delle nazioni”. Come potrebbe questo rapporto esaurirsi nel dilemma traduzione sì / traduzione no? Bisogna vedere cosa e come e quando si traduce. E necessariamente i maestri sono molto cauti e meticolosamente attenti ai contesti, ai dettagli concreti e quotidiani o, come dice il Talmud stesso, al “corpo del testo”. Viene ricordato che nella stessa Bibbia compare un’espressione in aramaico, in Genesi 31, 47, per designare il mucchio di pietre innalzato da Giacobbe e Labano per commemorare il patto della loro riconciliazione: traduzione dunque come azione di pace. Ma si sostiene anche che è vietato tradurre la Meghillah di Ester, il libro che racconta il rischio di sterminio del popolo ebraico per opera di Aman: quando la sopravvivenza è il pericolo la traduzione può essere un rischio mortale. Alcuni rabbini limitano l’universalità della traduzione sostenendo che i libri biblici possono essere tradotti, ma non i versetti consacrati agli usi rituali e inseriti negli oggetti di culto: i Tefilin, filatteri che leghiamo su noi stessi, quando preghiamo, in corrispondenza del cuore e del cervello, e le Mezuzoth, fissate sugli stipiti delle nostre case. Come se per conferire a questi oggetti tutto il loro peso non fosse sufficiente la spiritualità ebraica, ma fosse indispensabile anche tutta l’intimità del corpo ebraico. Altri rabbini si spingono oltre nell’attenzione alla materialità: si può tradurre in altre lingue a patto che il testo sia scritto in caratteri ebraici classici, con l’inchiostro e sotto forma di libro. Un rabbino tedesco dell’Ottocento, Samson Raphael Hirsch ha approfondito l’etimologia dei nomi dei figli di Noè, cioè dei progenitori dell’umanità. Oltre a ribadire il significato per Yafet di bellezza, estetica, capacità immaginativa, ricorda che Shem, capostipite del popolo ebraico, significa “nome”: il nome è principio di ogni sapienza, fonte di senso, capacità di chiamare le cose con il proprio nome. Non bisogna mai dimenticarsi nel tradurre e nel tradursi dei nomi propri da cui discendiamo nel passato e su cui ci fondiamo nel presente per il futuro.
Rav Roberto Della Rocca
(Intervento tenuto in occasione del convegno “Yafet nelle tende di Shem. L’ebraico in traduzione” al Centro Bibliografico UCEI)
(29 settembre 2016)